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Credere in carcere

Il 17 marzo è stato pubblicato l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Antigone, sulle condizioni delle carceri italiane. Sovraffollamento, ancora, ma in contemporanea  meno detenuti e meno reati. Nel rapporto, una parte è stata curata dal gruppo di lavoro sulle carceri della Fcei, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia. Ne abbiamo parlato con Francesco Sciotto, coordinatore del gruppo.

Quale è stato il vostro contributo al rapporto?

«Nell’ultimo rapporto di Antigone c’è un mio breve intervento, in rappresentanza del gruppo di lavoro sulle carceri, sul tema dell’accesso in detenzione alle cure religiose e alla possibilità di professare il proprio credo. In questo scritto abbiamo cercato di sottolineare l’attuale azione legislativa, per comprendere se vi è la possibilità per i detenuti e le detenute di professare la propria fede in carcere, e quale tipo di libertà abbiano a questo accesso. La cosa più interessante è che a tutt’oggi, nonostante la Costituzione dichiari che la libertà religiosa è un tema importante e che in carcere deve essere garantita, in realtà si regolamenta la possibilità di accesso delle chiese. Non c’è una vera centralità della volontà del detenuto nell’accesso alle cure religiose ma piuttosto il sospetto che le chiese vogliano tenere ognuna per sé il potere di entrare in carcere ed essere presenti negli istituti penitenziari».

Di cosa parliamo quando parliamo di libertà religiosa in carcere?

«Ci sono varie strade attraverso cui entrare in carcere e incontrare i detenuti che ne fanno richiesta; c’è la possibilità di incontrare il cappellano cattolico, che c’è in ogni istituto, nominato dalla Diocesi e pagato dall’amministrazione penitenziaria. Ci sono poi i pastori e i ministri di culto abilitati a questo dalle diverse Intese che lo Stato italiano ha siglato con chiese e organizzazioni religiose; poi la legge 17/1975 sull’ordinamento penitenziario, dà la possibilità ad associazioni di volontariato, società civile in generale e anche alle chiese, con dei controlli particolari, di curare dei detenuti che ne facciano richiesta. Già l’affastellarsi di tante leggi dimostra come ci sia una confusione indicibile e questo certamente va a scapito del diritto dei detenuti di professare la propria fede».

Ci deve sempre essere una richiesta del detenuto?

«Tendenzialmente sì. Questo è quello che dice la legge, ma non è sempre quello che dicono le Intese. L’Intesa dello Stato con la Chiesa Valdese, la prima siglata nel 1984, prevede, tra le altre possibilità, che i ministri di culto possano entrare in carcere anche di propria iniziativa, aspetto che credo non venga applicato in nessun istituto italiano: il problema è che essendoci una diversificazione di normative, si crea una mancanza di chiarezza. Quello che succede è che alcuni pastori, su richiesta dei detenuti, vanno a fare dei colloqui; più raro, ma capita, è che ci siano delle attività comunitarie in carcere, come studi biblici, culti e così via, ma dipende dalla disponibilità del carcere e in particolare dei direttori dei singoli istituti».

Il sovraffollamento continua a essere in prima pagina: è il problema principale o non si riesce a immaginare il carcere in modo diverso?

«Il quadro che è venuto fuori dalla presentazione di Antigone è un quadro a tinte forti, ma non necessariamente a tinte fosche. I detenuti passano da un numero di 67.971 alla fine del 2010, a un numero di 53.623 alla fine del 2014: questo significa che, anche a motivo della sentenza Torregiani della Corte Europea dei Diritti Umani che condannava l’Italia per il sovraffollamento, sono state fatte delle iniziative a carattere legislativo e non solo, per attutire il problema. C’è una tendenza continua  che non si ferma, a una situazione deflattiva. Questo migliora la condizione in detenzione, ed è un buon risultato. Si sta meno in detenzione per quanto riguarda la detenzione preventiva o la custodia cautelare, a motivo del fatto che sono aumentati i giorni di sconto di pena ogni sei mesi. Ora siamo stati promossi con riserva dalla Corte Europea dei diritti umani per il miglioramento, ed il motivo è che la Corte Costituzionale ha annullato la legge Fini-Giovanardi che trattava la questione delle tossicodipendenze come una questione di carattere securitario. L’annullamento, avvenuta non in Parlamento ma in un aula di tribunale, ha portato a una situazione di miglioramento del sovraffollamento».

A che punto siamo con il dibattito sul tema, in Italia?

«Il nostro paese fatica a dibattere su questi temi, e a farlo in maniera matura. Si parla di pena quando si parla di acuire le pene per rispondere ai problemi sociali, in maniera disorganizzata e seguendo le ansie securitarie dettate dalle agende dei telegiornali. C’è ancora molta strada da fare, per esempio non abbiamo ancora una legge sulla tortura. Sempre meno persone passano tempo in carcere, ed è positivo, ma si investe poco in misure alternative volte al reinserimento della popolazione detenuta quando esce dal carcere. I mancati investimenti si riflettono inevitabilmente sui contesti sociali».

Foto: Vista da una grata del carcere dell’Asinara, di Felisopus, Licenza CC BY 2.5