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Alla ricerca della Buona Notizia

Com’è che iniziano gli articoli di rito che seguono i campi Fgei? “Si è concluso domenica 3 maggio il Campo Studi”. Nello scrivere queste parole mi rendo conto che è appena finito uno dei campi più intensi e discussi della storia della Federazione. Sia al Precongresso che al Congresso, infatti, era stata molto combattuta l’idea di fare un campo sull’evangelizzazione, tanto che la mozione che sanciva definitivamente il tema del Campo Studi era passata con diverse astensioni e dopo una discussione molto intensa e partecipata. Ma queste erano solo le premesse.

Giunti a Ecumene da ogni parte d’Italia, in 104 riempiamo l’auditorium. Iniziamo con una meditazione della pastora di campo, Anna Maffei, che subito ci porta nel cuore del tema parlandoci di buone notizie; non di evangelo in senso stretto, ma semplicemente di buone notizie che, una volta ricevute, abbiamo sentito il bisogno di ripetere immediatamente a qualcuno: perché non annunciamo con la stessa convinzione anche la Buona Notizia per eccellenza? Eppure abbiamo molti più mezzi noi dei nostri avi colportori, ci ricorda la staff nell’attività del mattino dopo: internet e i social network hanno aperto a un pubblico potenzialmente infinito l’annuncio dell’evangelo. E allora, facciamo un passo indietro, come ci invita a fare il titolo del campo: da dove cominciamo? A chi la dobbiamo annunciare, questa buona notizia? Mentre questa domanda si fa strada nelle nostre teste, la diacona Nataly Plavan ci accompagna in una meditazione in cui ci invita a guardarci negli occhi, a cercare il contatto fisico tra noi, a conoscerci e chiamarci per nome, come fa Gesù risorto con Maria.

Intanto la staff si diverte a proporci letture bibliche sulla figura di evangelizzatori inconsapevoli (Giona) o di evangelizzati improbabili (quelli che Gesù preferiva), il gioco più ermetico della storia della Fgei (ma per questo ci vuole un articolo a parte) e un canto che con l’evangelizzazione sembra avere poco a che fare: “‘Cause I hear a voice and he calls me redeemed/ When others say I’ll never be enough/ And greater is the One living inside of me than he who is living in the world“. Ma non è finita qui: veniamo divisi in piccoli gruppetti di tre persone e mandati a passeggiare liberamente per il centro rispondendo a domande come “Cosa significa per te essere il sale della terra?”; “Cosa pensi che Dio voglia da te?”. Potrebbe bastare, ma ce n’è ancora: una tavola rotonda, breve ma intensa, più di testimonianza che di evangelizzazione vera e propria; una sola discussione plenaria, durante la quale la Fgei ha deciso cosa portarsi in valigia come “kit per l’annuncio della buona notizia”, in cui lo spazio più grande è riservato alle relazioni, ma rientra anche l’efficacia nel comunicare il messaggio, e perfino i dubbi che, inevitabilmente, ci portiamo dietro.

Qualcosa non torna, o forse torna tutto: la buona notizia dobbiamo annunciarla a noi stessi per primi, ricordandoci che siamo amati e preziose agli occhi di Dio, con tutti i nostri difetti e fallimenti (e quindi sì, il canto c’entrava eccome). E poi dobbiamo annunciarla gli uni alle altre, come abbiamo fatto nella nostra passeggiata a gruppi di tre, ma anche cantando insieme, guardandoci fugacemente negli occhi, chiacchierando al bar, per poi scoprire che la Fgei ha sempre evangelizzato, e, in verità, senza grande sforzo. Quel che manca, dopo questo passo indietro, è proprio lo sforzo di un passo “in fuori”. Eppure, qualcosa già si muove: in questo campo più che in altri abbiamo incontrato persone che non frequentano una chiesa, e che si definiscono non credenti, agnostiche, in ricerca. Se questo accade, se queste persone non hanno avuto remore a iscriversi a un campo sul tema dell’annuncio dell’evangelo è evidente che esiste un bisogno a monte, una sete di quella buona notizia che ci è stata annunciata e che dobbiamo trovare il coraggio di ripetere.

Quindi, dicevamo, si è concluso il Campo Studi, ma in verità non si è concluso niente: abbiamo appena cominciato.