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Ecoreati, una riforma annacquata

Dopo oltre venti anni di tentativi il 19 maggio 2015 il disegno di legge 1345 che introduce nel codice penale norme per i delitti contro l’ambiente è diventato legge.

Fino a questo provvedimento, in mancanza di strumenti normativi adeguati, per punire le condotte dannose in campo ambientale, i magistrati potevano appellarsi soltanto alla fattispecie del “Getto pericoloso di cose”, contravvenzione prevista dall’art. 674 del Codice Penale (codice Rocco del 1930), secondo cui : «chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti». Fattispecie debole con ancor più debole sanzione: arresto fino a un mese o ammenda fino a 206 euro.

La nuova legge raddoppia gli attuali termini di prescrizione per i crimini ambientali e introduce cinque nuove fattispecie di reato, che in caso di condanna o patteggiamento per il reato, prevedono la confisca dei beni e il ripristino dello stato dei luoghi:

  1. Inquinamento ambientale (pene detentive da 2 a 6 anni, multa da 10 a 100mila euro). La fattispecie prevede che sia punibile chi «abusivamente compromette e deteriora in modo significativo o misurabile la biodiversità o un ecosistema o la qualità del suolo, delle acque o dell’aria». Tra le aggravanti sono previste: lesioni personali, gravi e gravissime e morte della persona; in questo ultimo caso la pena può arrivare fino a un massimo di 12 anni. Se la condotta criminosa è causa di lesioni plurime a danno di più persone si applica la pena più grave aumentata fino al triplo, entro il limite massimo dei 20 anni di reclusione.
  2. Disastro ambientale (pene detentive da 5 a 15 anni). La fattispecie punisce «chi abusivamente altera gravemente o irreversibilmente un ecosistema o compromette la pubblica incolumità». È prevista specifica aggravante per disastro ambientale in aree protette. Sia inquinamento che disastro ambientale vedono, pur in presenza di aggravanti, le pene ridotte fino a un massimo di due terzi in assenza di dolo.
  3. Traffico e abbandono di materiale ad alta radioattività ( pene detentive da 2 a 6 anni, multa fino a 50mila euro) Punisce chi «abusivamente cede, acquista, riceve, trasporta, importa, esporta, procura ad altri, detiene, trasferisce, abbandona materiale di alta radioattività».
  4. Impedimento del controllo ( pene detentive da 6 mesi a 3 anni), punisce «chi nega o ostacola l’accesso o intralcia i controlli ambientali».
  5. Omessa bonifica: (pene detentive da 1 a 4 anni, multa fino a 80mila euro). Punisce «chiunque avendone l’obbligo non provvede alla bonifica e al ripristino».

Il quadro nel quale tale norma si colloca è molto critico. Prescindendo dal sommerso e dall’illegale, lo stato del nostro Paese è rappresentato nell’ Atlante Italiano dei Conflitti Ambientali (http://atlanteitaliano.cdca.it )

Calcolando soltanto i 57 Sin, Siti di Interesse Nazionale censiti dal Ministero dell’Ambiente (di cui 18 declassati a Sir, Siti di interesse Regionale nel 2013) la porzione di territorio nazionale gravemente inquinato per cui occorre predisporre urgenti operazioni di bonifica è pari a 155mila ha in terra ferma e 180mila ha di aree marine. Un’area che corrisponde al 3% del territorio nazionale, entro cui vivono, secondo i dati dello stesso Ministero, oltre 5 milioni e mezzo di persone, un cittadino su dieci. Ai Sin si aggiungono poi gli oltre 25.000 Sir censiti dal Mattm, solo 3.011 dei quali bonificati (Fonte: Minambiente, Siti di interesse nazionale. Stato delle procedure di bonifica al 31 dicembre 2013).

Per capire quali siano le conseguenze in termini sociali e sanitari di tale condizione di grave contaminazione, basta scorrere le risultanze dello Studio Epidemiologico Sentieri, realizzato dall’Istituto Superiore di Sanità. Nei tre rapporti diffusi tra il 2010 e il 2014 si registrano, nelle zone sottoposte a studio, tassi di sovra mortalità e di incidenza di patologie tumorali e di altre malattie legate all’inquinamento ben più alto delle medie regionali di riferimento.

Queste prescrizioni presentano alcuni punti di criticità.

  • Anzitutto il ricorrente utilizzo dell’avverbio “abusivamente” nelle fattispecie di inquinamento e disastro ambientale e di traffico di materiale radioattivo. Un reato ambientale, secondo la norma, sarà tale solo se sarà stato compiuto al di fuori delle norme. Ma nel caso in cui uno stabilimento industriale, una discarica o altro soggetto inquinante fossero provvisti di un’autorizzazione a produrre e a funzionare, non sarebbero abusivi e non potrebbero essere giudicati per disastro ambientale.  Tale specifica non appartiene, del resto, ad altre condotte criminose, che, com’è noto, sono punibili in caso di sussistenza di dolo o colpa.
  • Oltre al disastro ambientale abusivo questa legge recita che per essere considerato tale, il disastro ambientale deve poter essere definito come «alterazione irreversibile dell’ecosistema», senza che i concetti di “compromissione” e di “deterioramento” dell’ambiente stesso siano ulteriormente definiti, lasciando così ampi margini d’interpretazione.

L’astrazione della definizione di reato ambientale e il lavoro di ricognizione scientifica che il testo chiama in causa fanno presupporre che il reato sarebbe ipotizzabile solo dopo lunghi anni di studio e di ricerca, visto che per dichiarare “irreversibile” un danno ambientale, si dovrebbe aver già provato a ripristinare la situazione antecedente all’inquinamento, attraverso una serie di tentativi di bonifica e di decontaminazione.

Come si misura il danno irreversibile secondo la norma?

  • In terzo luogo, nella fattispecie di omessa bonifica lascia non poche riserve la previsione del cosiddetto “ravvedimento operoso”: la pena è diminuita dalla metà ai due terzi per chi si impegni a evitare che la condotta illecita sia portata a conseguenze ulteriori o provvede alla messa in sicurezza, bonifica e, ove possibile, al ripristino dello stato dei luoghi, «prima che sia dichiarata l’apertura del dibattimento di primo grado». Chiunque, ad esempio, gestisce una discarica senza autorizzazione potrà avere un termine temporale entro cui mettersi in regola. Le prescrizioni gliele dà la polizia giudiziaria e, se si mette in regola, il processo penale si estingue. Perché ci deve essere uno sconto della pena importante per ravvedimento operoso? 
  • Per quanto riguarda le pene, la riduzione fino a due terzi in assenza di dolo delle pene, porterebbe ad esempio, nel caso di disastro ambientale, a una pena detentiva massima di 5 anni, molto meno di quanto previsto per reati le cui conseguenze sociali e sanitarie sono ben inferiori rispetto alle fattispecie in esame.
  • Infine, nell’ultimo passaggio alla Camera è stato soppresso il divieto di utilizzo della tecnica dell’Air gun ovvero le perforazioni esplosive per lo sfruttamento di idrocarburi (per cui si prevedeva la pena della reclusione da 1 a 3 anni).

Resta chiaro, che, come ogni norma penale, la legge non ha effetto retroattivo. Rimangono quindi fuori dall’applicazione della legge le condotte criminose risalenti a prima dell’entrata in vigore della legge. Come resta da definire il tema della bonifica dei territori contaminati.

Fin qui le osservazioni raccolte.

Il campo d’azione della legge è quello del principio che “chi inquina paga”.

La sua prima formulazione è dovuta a livello internazionale all’Ocse che nella Raccomandazione del 26 maggio 1972 n.128 ha affermato la necessità che all’inquinatore fossero imputati «i costi della prevenzione e delle azioni contro l’inquinamento come definite dall’Autorità pubblica al fine di mantenere l’ambiente in uno stato accettabile». A livello Ue oggi vige la direttiva 2004/35/Ce sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale.

Purtroppo nell’attuale stato di cose la norma, pur perfettibile, non può che operare per una riduzione del danno.

Il problema infatti è a monte: non è possibile continuare a produrre e consumare oggetti pensati per durare il meno possibile e fatti di materiali tossici e non riutilizzabili. La natura non conosce rifiuti e non riconosce le manipolazioni chimiche prodotte dalla nostra specie.

«Chiudere» il cerchio della natura deve essere una domanda ad una sola voce, proveniente dai cittadini/e,  dal governo dell’economia che costringa i produttori ad una conversione radicale e dal sistema politico che si esprima in questa direzione.

Foto: Afragola (provncia di Napoli), di Gianluca Rizzi, con licenza CC BY-SA 2.0,  via Flickr