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Persi in un bicchiere di latte

In Italia, la legge 138 del ’74 impone la produzione di formaggi senza l’uso di latte in polvere. Il nostro paese è stato ripreso dalla Commissione Europea proprio per questa norma, che in violazione di alcune leggi, impedirebbe la libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione, e i quotidiani ne hanno parlato come di un “diktat”, anche in riferimento alle parole usate dal ministro dell’Agricoltura Martina.

La Coldiretti ha parlato di una norma per “assecondare le lobby” e da più parti sembra evidente che si tratti di una questione economica più che collegata alla qualità dei prodotti. Ne abbiamo parlato con Antonella Visintin, coordinatrice della Commissione globalizzazione e ambiente della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia.

Formaggio senza latte: i titoli hanno esagerato?

«La legge del 74 prevede che il formaggio sia prodotto con latte fresco, e non è la prima volta che l’Italia riceve questo tipo di attacchi. Sono decenni che dall’Ue arrivano pressioni lobbistiche per far scendere la qualità dei nostri prodotti che li caratterizza ed è un fattore premiante nella competizione internazionale. Questa volta è toccato al latte: i giornali hanno caricato i toni sul tema e per una volta non è male. Infatti è importante che nell’opinione pubblica italiana non si perda l’idea che la filiera agricola debba essere difesa. Gli italiani hanno fatto passi in avanti, l’attenzione alla qualità del prodotto in questi anni è cresciuta e le reazioni anche da parte degli agricoltori sono positive».

Il Ministro ha detto che i prodotti Dop saranno comunque tutelati

«Sì, ma attenzione a che non ci sia una separazione tra il prodotto tradizionale e quello Dop. Un’operazione potrebbe essere quella di salvaguardare la nicchia e far degradare tutto il resto: questo non ci può bastare, abbiamo bisogno che il prodotto convenzionale sia comunque di qualità».

Alcuni parlano delle pressioni lobbistiche, quanto conta questo aspetto?

«Da quando esiste l’Ue, e in questi anni in modo accelerato, l’Italia è chiamata a una cessione di sovranità su diversi aspetti: le politiche europee chiedono ai vari paesi delle convergenze anche a partire dalle diverse tradizioni culturali. In questo momento sta avvenendo secondo criteri non legati alla massima qualità ma al massimo rendimento. Il libero mercato che si sta configurando negli ultimi 20 anni non mette al centro la qualità, i diritti o la salvaguardia dell’ambiente, ma prodotti che possano competere su criteri di costo. Questo è il nodo del dibattito».

A proposito di libero scambio, lei fa parte del gruppo Stop Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico che vuole abbattere dazi e dogane tra Europa e Stati Uniti: come si intreccia a quello di cui pariamo?

«In questo momento uno dei temi forti della campagna stop Ttip è proprio l’agricoltura. Le lobby dei produttori hanno interesse ad avere questi trattati per inondare i nostri mercati con le loro merci. L’Italia resiste e questo potrebbe essere impugnato come una misura che blocca la libera circolazione delle merci, proprio come è stato detto per la questione del latte in polvere».

Parlare di alimentazione significa anche parlare di ambiente.

«Sicuramente si. L’agricoltura ha un impatto molto alto sul cambiamento climatico. Gli studi di Via campesina indicano che tra il 44 e il 57% di tutte le emissioni di gas serra provengono dal sistema alimentare globale e all’interno di questa quota si trovano deforestazione, agricoltura, trasporto, imballaggio, congelamento e rifiuti. Così come i mangimi (che l’Europa importa) sono al 90% Ogm: argomenti diversi ma tutti collegati tra loro. L’alimentazione di 7 miliardi di persone, se vuole essere equa e avere dei criteri di giustizia, deve essere rivista. Soprattutto nella parte ricca del pianeta». 

Foto via Pixapay | Licenza: CC0 Public Domain