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I molti modi per dire valdese

Un notevole gradimento ha riscosso, nei partecipanti, il LV Convegno storico organizzato a Torre Pellice dalla Società di studi valdesi nei giorni 4-6 settembre scorsi e dedicato al tema «Valdesi – Vaudes – Valdenses – Vaudois. Identità valdesi tra passato e presente. I molti modi in cui sono stati definiti i valdesi nel corso del tempo sono indice di una sensibilità che vedeva in loro aspetti e identità diverse, con il loro favore o meno. Di questo complesso e denso programma di studi parliamo con Susanna Peyronel, presidente della Società.

In una certa fase del Medioevo vengono definiti come «valdesi» tali anche altri eretici, come attesta l’ultimo libro di Marina Benedetti (I margini dell’eresia. Indagine su un processo inquisitoriale – Oulx, 1492) di cui hanno parlato Gabriella Ballesio e Grado G. Merlo nella prima sera di convegno: che cosa era avvenuto nell’immaginario dell’epoca, per cui la definizione di «valdesi» si estendeva a una categoria più vasta di persone, «devianti» dalla via ortodossa?

«Nel Medioevo gli “eretici”, o quelli considerati tali, erano una vasta galassia che aveva in comune molti dei temi di dissenso dalla Chiesa cattolica. Anche se dal punto di vista delle credenze magari differivano molto (valdesi e catari, ad esempio, differivano ampiamente tra loro), alcuni temi come la povertà o la contestazione delle gerarchie ecclesiastiche erano comuni. I cosiddetti “valdesi” erano una minoranza che riuscì spesso a sfuggire agli inquisitori, almeno finché il nome “valdesi” non divenne nel Quattrocento sinonimo di “stregoni”. Agli inquisitori interessava scoprire la rete clandestina dei barba e l’accusa di stregoneria o di vita sessuale licenziosa era l’accusa più facile».

Si può dire che i valdesi abbiano costruito un’immagine di sé autonomamente, all’interno della loro comunità (come si può ipotizzare dalla relazione di Yutaka Arita dell’Università di Osaka) o hanno dovuto «indossare» l’immagine confezionata da chi li inquisiva?

«All’interno delle comunità, anche nel Medio Evo i valdesi avevano coscienza della propria diversità, ma non volevano esser chiamati valdesi, bensì Poveri di Lione, boni homines, pauperes Christi. Ne risultò un’immagine di minoranza ingiustamente perseguitata. Quest’immagine è ancora suggestiva per gli studiosi della storia dei valdesi [ed proprio il caso di Arita, studioso della “coscienza collettiva” dei valdesi, come disse egli stesso in un’intervista a Riforma.it mesi fa, ndr]».

La sua relazione è stata dedicata ai valdesi nell’immaginazione dei primi riformatori francesi di Strasburgo. L’immagine di «popolo pacifico semplice, indifeso», perseguitato dalla potente macchina da guerra di Roma, era sufficiente o dovette essere supportata dall’altra immagine diffusa, quella di popolo eroico?

«Con l’adesione alla Riforma, i primi riformatori videro nei “valdesi”, per la loro antichità e per la loro organizzazione clandestina, un popolo. Non solo, ma proprio il “popolo del Patto”. L’immagine di “popolo pacifico, semplice e indifeso”, dunque evangelico, perseguitato dai “lupi rapaci” della Chiesa di Roma, era un’immagine nella quale i valdesi probabilmente ben si riconobbero. E a questa immagine aggiunsero, in seguito ai ripetuti episodi di resistenza armata alle aggressioni dei Savoia, anche l’immagine di popolo eroico, vittorioso perché protetto da Dio. Nell’Europa delle guerre di religione questa era destinata a diventare un’immagine di successo».

E che cosa succede dopo l’epoca delle persecuzioni?

«In seguito le immagini si accavallano: i valdesi, anche per la politica di ghettizzazione a cui furono costretti fino al 1848, si identificarono fortemente con la loro terra: Jean Léger, autore della celebre Histoire générale des églises évangéliques des Vallées de Piémont, ou Vaudoises (Leida, 1669) arriva a far risalire il termine a quello di “valligiani” (come ha spiegato Martino Laurenti).Un’altra strada consiste nel rifarsi all’immagine della terra, della patria perduta, delle usanze e della lingua da tramandare degli esuli come quelli che trovarono rifugio nel Württemberg (De Lange). In ogni caso l’apertura del ghetto successiva al 1848 e l’opera missionaria e di evangelizzazione proposero una nuova immagine. La Chiesa valdese cominciò a mescolarsi con il mondo».

In che modo questa complessità di definizioni si traduce in strategia per raccontare, oggi, la complessità delle visioni sui valdesi succedutesi nei secoli? È questo un problema in più oppure è un’opportunità?

«La narrazione di tutta questa complessità risulta molto difficile, e quindi si rende oltremodo importante la formazione dei narratori così come l’ascolto delle domande del pubblico che possono venire dagli interlocutori, come ha spiegato Nicoletta Favout dell’ufficio “Il barba” del Centro culturale valdese».

Le strutture valdesi devono confrontarsi proprio con un mondo esterno di interlocutori, dalle Chiese sorelle alle scuole agli studiosi: questo convegno potrà essere utile per tutti?

«Essendo un convegno della Società, si è voluto fare un discorso storico: questo al fine di sgomberare il campo da presunte e “varie” identità».

È giusto così, questo è il compito di un convegno storico: definire il campo di studio e lasciarne fuori ciò che non gli compete o non è suffragato da fonti e documenti: di qui in poi la riflessione sull’identità, che tocca tutti a livello personale, troverà molte altre strade, anche più complesse, per essere sviluppata.