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Rawiya, raccontare storie in Medio Oriente con gli occhi delle donne

La Primavera araba del 2011, declinata al singolare o al plurale, ha portato nel Medio Oriente e nel nord dell’Africa un’inedita attenzione dei media: le immagini scattate con i cellulari e condivise sui social network, le fotografie e i video delle agenzie di stampa internazionali, ma anche una nuova consapevolezza del potere della narrazione come strumento per raccontare dei territori in fermento.

Quasi in contemporanea a questi fatti, alcune donne fotografe provenienti da varie zone del Medio Oriente, fondarono il collettivo Rawiya, che in questi quattro anni ha inquadrato e raccontato storie che vanno dalle storie delle donne di Gaza fino al mondo Glbt di Beirut, passando per l’istruzione e lo sport in vari luoghi della regione, ottenendo successi a livello internazionale non soltanto con la pubblicazione su giornali e riviste, ma anche accedendo a un mondo come quello delle mostre fotografiche, che le ha consacrate come uno tra i gruppi più interessanti non soltanto a livello regionale.

Laura Boushnak, kwaitiana di origine palestinese residente a Sarajevo e cofondatrice del collettivo Rawiya, ci racconta che «tutto è cominciato con un caffè», ma non solo.

Un po’ di storia: quando e perché avete deciso di creare questo collettivo?

«È cominciato tutto con un caffè tra la fotografa iraniana Newsha Tavakolian, Dalia Khamissy e Tamara Abdul Hadi, che si incontravano a Beirut e che a un certo punto ebbero un’idea: perché non creare un collettivo fotografico di donne mediorientali? Così è cominciato il progetto e io mi sono unita a queste conversazioni insieme alla mia collega Tanya Habjouqa, attiva a Gerusalemme Est. C’è voluto circa un anno per discutere dei dettagli, preparare il sito web e decidere quando avremmo lanciato il progetto.

Il motivo per cui abbiamo deciso di creare questo collettivo è creare una piattaforma per presentare le nostre storie. Ci sono moltissime storie che provengono da questa regione, ma volevamo poterle raccontare da un punto di vista interno. Inoltre volevamo aprirci maggiormente al mercato editoriale, ma è successo che ci siamo aperte ancor di più al mercato dell’arte. Attualmente partecipiamo a un gran numero di mostre fotografiche collettive, che rappresentano una grande opportunità di condivisione delle nostre storie, e questo ci dice che abbiamo fatto bene a unire le forze: quando si presenta una storia raccontata da una sola fotografa si racconta qualcosa, ma quando si mettono insieme tutte queste storie, tutte queste differenti “mani”, toccando molte differenti tematiche sociali, il nostro lavoro assume una forza maggiore e fornisce più punti di vista su ciò che accade in Medio Oriente, soprattutto in periodi di grande trasformazione. Noi infatti avevamo lanciato il nostro progetto all’inizio delle cosiddette “primavere arabe”, quando c’era parecchio fermento nella regione e i media avevano puntato i loro riflettori sui paesi dell’area.»

Avete un retroterra culturale comune, non soltanto in senso professionale, ma anche come persone?

«Siamo fondamentalmente amiche, e condividiamo la stessa professione, oltre al fatto che ci siamo sempre dedicate ai documentari fotografici affrontando più o meno le stesse tematiche sociali. Inoltre siamo tutte donne mediorientali, e questo ci permette di condividere storie e sfide simili, oltre a molte frustrazioni e anche qualche successo. È stata una grande idea quella di mettere tutte queste cose insieme per cercare di fare qualcosa nella regione. In un luogo in cui la gran parte delle storie sono raccontate da un “occhio straniero”, questa è una grande opportunità per fornire uno sguardo locale.»

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From the series valley of peace: Photo by Tamara Abdul Hadi

Nel vostro manifesto parlate di contraddizioni e stereotipi. In particolare, su quali vi siete concentrate?

«È un problema centrale: ci sono numerosi stereotipi che provengono dalla regione, un gran numero di luoghi comuni e pregiudizi su molti temi, e ancor più quando si raccontano storie che parlano di donne. Il problema è che se avessimo deciso di fare il nostro lavoro cercando esplicitamente di rompere gli stereotipi avremmo prodotto a nostra volta delle storie stereotipate, per cui il nostro approccio si focalizza sulla critica costruttiva, e questo di per sé rompe le barriere dei luoghi comuni.

Quando lavoro ai miei progetti mi rivolgo spesso al pubblico del mondo arabo, e in questo modo posso utilizzare un linguaggio e dei contenuti differenti da quelli che si vedono normalmente sui media mainstream

Rawiya significa, più o meno, “colei che racconta una storia”. Pensi che il vostro lavoro rappresenti una sfida per proporre una visione diversa della regione, per dire che non ci sono soltanto le guerre, ma anche molte storie quotidiane e alcune storie straordinarie?

«Questo ci porta a parlare di nuovo di stereotipi, e a volte sì, presentare le nostre storie è una sfida difficile, perché alcune riviste cercano un certo genere di immagini e un certo genere di storie; c’è una tendenza a metterci in un angolo, come a dire che una donna araba in Medi Oriente deve rappresentare per forza un certo tipo di storie che rientrano nelle immagini classiche dei luoghi e delle persone, ma ciò nonostante dobbiamo anche dire che si sono aperte molte porte, e molte gallerie e riviste stanno accogliendo le storie che stiamo cercando di rappresentare.

Per esempio, la mia collega Tamara Abdul Hadi, che è irachena, ha realizzato un progetto chiamato semplicemente “ritratti di uomini arabi”, che consiste in sostanza di ritratti di numerosi uomini arabi da diverse parti della regione, un progetto focalizzato alla rottura della classica narrazione. Questi ritratti ci dicono che non sono attentatori suicidi, non sono jihadisti, sono persone normali con determinati sogni e di cui non bisogna temerli. Il progetto è stato accolto molto bene, e non è l’unico. Certo, non possiamo dire che sia sempre facile, ma bisogna ammettere che negli anni si sono aperte davvero molte porte.»

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From the series Fragile Monsters by Tanya Habjouqa

Quali sono le principali difficoltà per un collettivo di donne in Medio Oriente? Il vostro progetto può essere visto anche come un modo di raccontare un ruolo diverso per le donne nella regione?

«Ce lo chiediamo spesso, e in realtà se guardiamo agli ultimi anni le difficoltà riguardano tanto gli uomini quanto le donne che lavorano come fotografi, i professionisti hanno visto importanti trasformazioni. Tuttavia, devo dire che a volte essere una donna è stato un vantaggio e non un ostacolo, perché mi ha garantito un accesso più facile ad alcune storie che riguardano altre donne.

Per esempio, in questo periodo sto lavorando a un progetto che si occupa di donne arabe ed educazione, e il fatto di essere donna mi ha permesso di accedere ad alcune storie e ad alcuni luoghi che mi sarebbero stati preclusi in altri casi.

Un altro aspetto importante è invece il fatto che sempre più spesso veniamo contattate da giovani fotografe mediorientali che cercano aiuto, pareri e consigli, e questo ci fa capire che c’è un numero crescente di donne che attraverso il loro lavoro raccontano delle storie e presentano la regione in cui vivono attraverso un punto di vista originale e interno.»

È un grande risultato.

«Sì, decisamente. Certo, se mi siedo e comincio a pensare a tutte le sfide e alle difficoltà mi sconforto un po’, ma ancora una volta penso che siano tempi difficili per tutti, e che quindi sia necessario trovare un modo per farcela.»

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From the series Menya’s kids: Photo by Myriam Abdelaziz

Stai lavorando su progetti specifici in questo momento?

«Sì, oltre a quello di cui abbiamo appena parlato, e che mi porterà il prossimo mese in Arabia Saudita e in Palestina, sto preparando un lavoro sul decimo anniversario della guerra del 2006 nel Libano meridionale, raccontato attraverso le persone che sono sopravvissute alle bombe a grappolo, uomini e donne che ho seguito in questi dieci anni e che nei prossimi mesi tornerò a trovare per scattare qualche nuova fotografia.»

E per quanto riguarda le prossime sfide?

«Sono troppe, non posso scegliere. Diciamo che la grande sfida è continuare a lavorare mantenendo l’attenzione sulle questioni che abbiamo affrontato finora, e raccontare sempre nuove storie, perché penso che ci sia bisogno di un punto di vista differente.»

Foto copertina: From the series I Read I Write photo by Laura Boushnak