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Sforzo di sintesi tra posizioni diverse

Di Erika Tomassone

La relazione finale del Sinodo dei vescovi cattolici sulla famiglia non ha certamente soddisfatto chi si aspettava delle posizioni nette e soprattutto aperte in materia. E’ saggio che una protestante entri in casa altrui in punta di piedi, infatti pur condividendo la comune fede in Cristo, e la necessità di una testimonianza concreta pubblica e privata, si è consapevoli del diverso modo di collegare etica e fede e della diversità dei processi decisionali.

Non si può chiedere a un documento ufficiale che mette un punto nell’ambito del dibattito cattolico, di essere quello che non può essere. Le valutazioni cattoliche diffuse nei quotidiani italiani, parlano di esiti timidi, di equilibrismi; alcune voci si occupano dei lavori del Sinodo da un punto di vista della struttura della chiesa cattolica, plaudendo al rapporto instauratosi tra il papa e i vescovi, nel senso dell’espressione di una collegialità evidentemente non sempre realizzata nel passato, oppure si valuta il Sinodo sulla scia del Concilio Vaticano II sottolineando la ripresa del tema della famiglia dopo anni in cui non si era “osato” affrontarla al livello di dibattito a cui è stata portata con il Sinodo dei vescovi. Leggendo la relazione finale si può apprezzare lo sforzo di sintesi di posizioni molto diverse nell’ambito dell’episcopato, anche attraverso lo scarto tra le conclusioni e i Lineamenti preparatori del 2014 che lasciavano sperare in maggiori aperture. E’ un segno di trasparenza il fatto che siano resi pubblici i risultati della votazione per ogni paragrafo. Si apprezza l’esplicitazione della dimensione mondiale che nella relazione finale porta a differenziare la situazione delle famiglie in diversi contesti culturali e sociali (matrimoni combinati, matrimoni misti di culto o tra battezzati in chiese diverse). Suscita perplessità nella parte iniziale, la esplicitazione dell’ideologia del gender e del femminismo come contraddizioni, minacce arrecate alla visione cristiana della famiglia. Questa menzione agita uno spauracchio che sembra il deposito di ogni male.

Non sarebbe il compito di un’assemblea cristiana di aiutare a comprendere più che semplificare con etichette confuse, strumentali e con ricadute potenzialmente disastrose nell’ambito educativo pubblico qualcosa che è oggetto di dibattito? Lo stigma di una confusione accontenta alcuni, ma non rende ragione della realtà in cui si muove la testimonianza cristiana. Una teologia cristiana deve per forza avere dei nemici per farsi valere? D’altra parte il testo sembra evitare l’uso della parola violenza preferendo altri termini come sopraffazione, o fragilità nell’ambito familiare. Molto ha fatto discutere il tema del discernimento, secondo il quale si deve valutare l’integrazione nella chiesa dei divorziati. Non è pastoralmente una novità, ma è ufficialmente un cammino indicato. In ambito cattolico questo punto è stato valorizzato come il realizzarsi di una chiesa della misericordia contro una chiesa della verità. Si può apprezzare che si possa instaurare un dialogo, che almeno all’oggettività della condizione, si possa sostituire l’ascolto dei soggetti coinvolti. Rimane però sempre una chiesa valutante, mentre in ultima analisi la mia vita si confronta con un Dio che chiama in ogni caso alla conversione e che ha il potere di perdonare e ridarmi la vita, di integrarmi e di giudicarmi se la mia integrazione fosse indegna. Non si può dunque chiedere alla teologia cattolica di non essere cattolica. Piuttosto è consigliabile uno studio più puntuale del documento anche in vista del proseguimento del dialogo ecumenico.

Foto Pietro Romeo/Riforma