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I rischi dello stato di emergenza

E’ trascorso un mese dalla proclamazione dello stato di emergenza su suolo francese, fortemente voluto dal presidente François Hollande e votato da un Parlamento pressoché compatto, per far fronte all’emergenza terrorismo a seguito degli attentati parigini del 13 novembre.

Una misura eccezionale, adottata soltanto una volta dal termine del secondo conflitto mondiale, ai tempi del tentato putsch dei militari algerini quando la Francia era sotto la guida forte del generale De Gaulle.

Nei giorni immediatamente successivi al dramma, l’opinione pubblica, per lo meno quella interpellata dai cosiddetti sondaggi di opinione, dimostrava di accettare misure di restringimento delle libertà individuali in nome di un superiore bene collettivo, rispolverando i concetti di patria e di sicurezza nazionale.

Nei giorni scorsi il governo ha pubblicato i primi dati che mostrano, al di là degli slogan, cosa stia significando in concreto per la popolazione vivere in un regime di leggi speciali. Sono state compiute 2575 perquisizioni da parte delle forze di polizia, senza bisogno de permesso giudiziario solitamente richiesto. Controlli a tappeto quindi, che hanno consentito la requisizione di un buon numero di armi, 400 circa (anche se molte risultano possedute legalmente dai legittimi proprietari, ma vengono sequestrate se la loro detenzione risulta potenzialmente pericolosa, concetto che appare assai vago) hanno portato al fermo di oltre 500 persone e all’obbligo di firma per circa 300. Se si va appena un poco oltre ai freddi numeri, si viene a capire che oltre la metà dei fermati in realtà col terrorismo non c’entra proprio nulla, ma si tratta di donne e uomini che nei giorni della conferenza Onu sul clima COP21 avevano dato vita a proteste contro i leader dei paesi riuniti, considerati responsabili dell’immenso inquinamento planetario. Ma vigendo il divieto di manifestazioni, uno dei corollari dello stato di emergenza, ecco che la polizia non aveva esitato ad usare le maniere forti, identificando un gran numero di persone. Modalità che paiono esser diventate triste consuetudine, se è vero che addirittura il governo, per bocca del ministro degli Interni Bernard Cazeneuve, ha dovuto precisare con una circolare che «lo stato di emergenza non significa abbandono dello stato di diritto. Si sono rese necessarie misure che hanno il fine di proteggere la popolazione e di agire in tempi rapidi, ma questo non vuol dire che tutto è possibile e permesso in ogni istante».

Si moltiplicano infatti le segnalazioni di irruzioni assai violente in abitazioni concluse con un nulla di fatto, soprattutto nelle periferie, le banlieu abitate quasi interamente da persone di origine africana, seppur ormai cittadini francesi anche da più di una generazione. Sono gli stessi giornali francesi, per consuetudine non proni al potere di turno come invece di norma fra i nostri confini, a raccontare quotidianamente le incongruenze che tale sistema restrittivo reca con sé. Nel mirino ovviamente i quartieri a maggioranza musulmana, dove si presume si annidino terroristi e predicatori di odio. Perplessi per le misure anche gli avvocati francesi, che in un comunicato diffuso dall’ Unione sindacale dei magistrati mettono in guardia dal rischio di abusi sottolineando come «più ci si allontanerà dalla data degli attentati e sempre meno certe misure parranno giustificate».

La necessaria reazione ad un attacco patito al cuore della nazione non può tradursi in un libero arbitrio giuridico, che rischia solamente di inasprire il conflitto sociale. E di minare la coesione della popolazione, ingrediente principe per un paese in guerra. Come la Francia si considera.

Foto di Tony Webster via Flickr | Licenza CC BY 2.0