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La memoria si fa giustizia

Hubert Zafke ha novantacinque anni e vive a Gnevkow, duecento chilometri a nord di Berlino. Più di settanta anni fa esercitò la professione di “medico” nel campo di sterminio di Auschwitz. Aveva aderito alla Gioventù hitleriana nel 1933, a soli tredici anni, mentre frequentava il liceo agrario di Schoenau, la sua città natale, nell’odierna Polonia. Si era iscritto a quella scuola per seguire le orme del padre contadino, ma sei anni dopo Hubert era già un promettente giovane delle SS. Quando prende servizio ad Auschwitz è l’estate del 1944.

Il prossimo 29 febbraio Zafke salirà sul banco degli imputati. Di fronte al tribunale Neubrandenburg egli dovrà difendersi dall’accusa di avere partecipato in piena coscienza all’uccisione di 3681 persone. La cifra, calcolata dagli inquirenti sul periodo che va dal 14 agosto al 14 settembre, è stata ripresa con macabra precisione sulla stampa italiana e internazionale, cui peraltro non è sfuggito che Zafke si trovava ad Auschwitz quando vi giunse Anne Frank. All’ombra di questi dati giornalisticamente utili – spesso, va detto, utilizzati in chiave sensazionalistica – fatica ad emergere la questione di fondo, ovvero come a fondamento dell’impianto accusatorio non vi sia, questa volta, la responsabilità acclarata su ogni singolo delitto, quanto la cosciente e consapevole partecipazione di un individuo pensante alla macchina dello sterminio nazista.

Com’è noto, il campo di Auschwitz fu liberato dall’Armata Rossa sul finire del gennaio 1945; ma Zafke, fuggito a ovest, finì in mano britannica. Condannato da un tribunale polacco a tre anni di reclusione, scontati dal 1948 al 1951, Zafke tornò all’agricoltura, si trasferì a Gnevekow, nella Germania Est, e là si sposò, divenendo padre di quattro figli. Dopo quarant’anni di guerra fredda e di calda, “banale”, vita domestica, il muro improvvisamente cadde.

Gli archivi polacchi, sovietici e della Germania Orientale sono oggi disponibili e cooperanti. È sempre all’interno di questa novità documentaria che trovano spiegazione le recenti condanne comminate a John Demnjanjuk, guardia al campo di Sobibor (2011) e al novantaquattrenne Oskar Groening, anch’egli operante ad Aushwitz (2015). Si tratta, è evidente, dell’affermazione di un principio giuridico: non tanto per il carattere “postumo” dell’inchiesta, né per l’età dei condannati (viste le sue precarie condizioni di salute, inizialmente il tribunale di Neubrandenburg si era rifiutato di aprire il processo Zafke), quanto per il fatto che in mancanza di testimoni viventi, la presenza documentata nell’ingranaggio dell’olocausto viene oggi riconosciuta come sufficiente testimonianza incriminante. Resistendo alla sfida del tempo, in Germania la memoria non rinuncia a farsi giustizia.

Foto “Holocaust monument Berlijn“. Con licenza CC BY-SA 3.0 tramite Wikimedia Commons.