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Un’altra legge «antimoschee»

Ha riacceso il dibattito, nei giorni scorsi, una proposta di «legge antimoschee» in Veneto. Il timore è che si ripeta il copione di un anno fa in Lombardia, dove un’analoga proposta aveva aperto le porte alla discriminazione delle minoranze religiose, in particolare quelle bisognose di adeguati luoghi di culto.

La proposta riguarda alcune modifiche alla legge regionale n. 11 del 23 aprile 2004, «Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio», con vincoli sui nuovi edifici di culto. Una proposta, dunque, formalmente di controllo dell’attività edilizia e delle trasformazioni urbanistiche, ma con conseguenze negative sul rispetto del principio costituzionale di libertà delle confessioni religiose (art. 8).

Se n’è discusso il 12 gennaio scorso in un’audizione presso la Seconda Commissione del Consiglio regionale, con rappresentanti della Commissione delle chiese evangeliche per i rapporti con lo Stato (avv. Ilaria Valenzi), delle chiese valdesi e metodiste (la past. Caterina Griffante e l’avv. Alessandra Trotta, diacona e presidente dell’Opera per le chiese metodiste in Italia), della chiesa luterana, delle comunità sikh e di quelle musulmane.

Seppure «alleggerito» rispetto a quello originario, il testo presentato contiene ancora punti che ledono il diritto di libertà religiosa, con profili di incostituzionalità, hanno sottolineato Valenzi e Trotta. Quest’ultimo tema, argomentato dalle rappresentanti evangeliche, ha suscitato particolare interesse.

Oltre a violare i principi costituzionali, commenta Trotta, la proposta di legge «viola persino il principio di logicità e ragionevolezza in relazione, ad esempio, alla previsione della possibilità per i Comuni di individuare per la realizzazione di edifici e attrezzature religiose aree non ancora urbanizzate, salvo porre a carico dei soggetti costretti a servirsene l’onere dell’esecuzione degli interventi di urbanizzazione primaria (strade, fognature, illuminazione…), o all’introduzione di un obbligo di convenzioni fra le confessioni religiose e le amministrazioni comunali e la sottoscrizione di onerosi impegni fideiussori.  Inoltre, manca l’indicazione di elementi oggettivi di “maggiore carico urbanistico” che, indifferentemente per tutte le attività edilizie connesse a finalità religiose (fra le quali vengono fatte rientrare persino le abitazioni dei ministri di culto), dovrebbero giustificare la necessità di una normativa speciale di tipo tanto restrittivo».

Le fa eco Mohamed Amin Al Ahdab, che oltre a essere presidente della Comunità islamica di Venezia e provincia è anche architetto: «Una legge non deve essere “anti”, ma “per”: se alza barriere e paletti allo scopo di migliorare il territorio, deve prima studiarne le esigenze reali, trovando soluzioni alternative, e ciò non è stato fatto. La proposta dunque è solo in apparenza migliorativa, il suo vero intento è un altro, si rivela una proposta politica più che organizzativa. Penso che alla fine questa legge non vedrà la luce, perché non è fatta per migliorare il territorio».

I presenti all’audizione hanno infatti sottolineato quanto il progetto di legge sia un errore dal punto di vista non solo giuridico, ma politico. Continua Alessandra Trotta: «L’evidenza e gravità delle restrizioni rivelano uno spirito di pregiudiziale disfavore nei confronti delle comunità di fede diverse da quella della maggioranza (quelle islamiche o quelle, cristiane o di altre religioni, composte da immigrati), le cui attività vengono considerate sotto il profilo della presunta pericolosità per la sicurezza e l’ordine pubblico, la morale comune e persino la salute; dunque da limitare, anche ponendo ostacoli praticamente insuperabili al soddisfacimento di un bisogno profondo, quello di disporre di luoghi dignitosi per riunirsi. Se davvero l’obiettivo politico (come dichiarato) è spingere queste comunità all’integrazione rispettosa della “nostra cultura” e dei “nostri principi” di convivenza civile, il risultato è opposto: una marginalizzazione delle comunità di fede, spinte a chiudersi il più lontano possibile dai luoghi della vita comunitaria, del confronto, dell’integrazione o costrette a continuare ad arrangiarsi con soluzioni inadeguate, sempre esposte al rischio di interventi d’autorità.

Per Trotta si tratta di «una politica miope, che ignora i benefici che si potrebbero trarre da un’azione di supporto e valorizzazione delle comunità di fede e del loro ruolo di agenti di cittadinanza attiva, pacifica, responsabile, particolarmente in un periodo della storia tanto scivoloso e delicato quale quello che stiamo attraversando. La storia anche recente (molte delle nostre chiese lo possono testimoniare) è ricca di esperienze di buone pratiche da parte di comunità di fede che si offrono ogni giorno, con intelligenza e impegno, come spazi di costruzione di dignità, laboratori di mediazione culturale, di inclusione e partecipazione democratica e persino di educazione alla salute».

Una posizione simile è espressa da Mohamed Amin Al Ahdab: «Come credenti siamo rispettosi delle leggi che disciplinano la vita, ma questa proposta non è equilibrata e crea il caos. Innanzitutto perché affidando l’applicazione ai singoli Comuni diventa aleatoria, seguendo l’interpretazione (e il colore politico) dei sindaci, oltre a essere anticostituzionale perché non garantisce il rispetto dell’articolo 8. In secondo luogo crea il caos perché mette in pericolo proprio quella sicurezza che si vorrebbe garantire: ponendo divieti o restrizioni si ottiene l’effetto contrario, e questo va esattamente contro il nostro impegno come musulmani per la trasparenza, l’integrazione. I nostri centri non sono solo luoghi di preghiera ma anche di informazione, per limitare l’azione di imam “fai da te” e dei loro insegnamenti pericolosi. Noi come musulmani siamo parte della sicurezza e siamo impegnati per essa, ma la sicurezza non si realizza così. Questo è un volerci strangolare con un guanto di velluto».

«Oggi in Italia – prosegue Al Ahdab – c’è una sola moschea riconosciuta, a Roma (gli altri luoghi di incontro sono definiti centri culturali). Con questa proposta si cerca di toglierci il minimo indispensabile per poter esercitare il nostro culto. Siamo circa due milioni, di diverse nazioni, compresa quella italiana: le autorità hanno il dovere di gestire tali numeri in modo intelligente, equilibrato e attento, con piani che coinvolgano tutti gli attori principali, e non di lasciarle in balia delle scorrette interpretazioni e senza un controllo. Questa legge non colpisce soltanto le minoranze che hanno bisogno di nuovi luoghi di culto: colpisce tutta la società, i cittadini italiani, compresi noi musulmani, che abbiamo il diritto di essere tutelati dalla Costituzione come tutti».

Le comunità religiose sono dunque concordi nel condannare la proposta di legge, per la quale tuttavia la seconda commissione ha espresso parere favorevole. Si vedrà ora se la normativa sarà approvata o se verrà bloccata. Quel che è certo, ha dichiarato Ilaria Valenzi all’agenzia Nev, è che «appare sempre più urgente continuare nel lavoro di presentazione di un adeguato disegno di legge in materia di libertà religiosa e di coscienza, che possa finalmente superare lo stallo in materia causato dall’inadeguatezza del sistema legislativo».

Foto di PaulCowan, ©iStockPhoto