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Dopo la Danimarca, la Svezia

Rientrato dal difficile vertice di Amsterdam sullo spazio Schengen, il ministro degli interni svedese Anders Ygeman ha dichiarato che il suo paese si predispone al rimpatrio di 80.000 richiedenti asilo. Per fornire concretezza all’esternazione – che, per il momento, rimane sul piano dell’eventualità – il ministro ha specificato mezzi e tempi dell’operazione: si tratterebbe di un piano di rimpatrio pluriennale, da realizzare con l’utilizzo di voli charter.

Nel corso del 2015, hanno richiesto asilo in Svezia 163.000 migranti: un record europeo condiviso con la Germania e ridimensionato dal recente ripristino dei controlli alle frontiere.

Se la notizia, negli stessi giorni in cui il parlamento danese ha legiferato sul cosiddetto “contributo d’accoglienza”, getta un’inquietante ombra sulla tanto ammirata “civiltà scandinava”, non bisogna tuttavia cedere ad un facile, compiaciuto scandalo.

Come i negoziati di Amsterdam hanno dimostrato, il problema è squisitamente politico; afferisce, cioè, alla capacità delle élite politiche del continente di riconoscere l’”europeità” del fenomeno migratorio che pressa sui confini dell’Unione.

Come tutte le entità politiche, anche l’Ue esiste solamente nella mente delle donne e degli uomini che la pensano. In assenza di questa “visione condivisa”, i politici, svedesi e non, torneranno a ragionare in termini di mero consenso nazionale. Le dichiarazioni del ministro Ygeman, che fuori dalla Svezia suonano inumane, nel suo paese trovano consenso perché pronunciate a partire dalla cronaca locale. Proprio questa settimana, a Mölndal (vicino a Gothenburg) un richiedente asilo di quindici anni è stato arrestato dopo aver accoltellato a morte un dipendente del centro asilo presso cui era ospitato. Eccola la cornice di senso, la cassa di risonanza che non giustifica ma rende politicamente comprensibili le infelici esternazioni del ministro svedese: un politico del nostro tempo, che per ragioni di consenso dimentica l’Europa e trascura le reali dimensioni del problema migratorio.

Secondo i dati riportati dall’Osservatorio sui rifugiati “Vie di fuga”, la Svezia non è, in realtà, un paese inospitale: nella prima metà del 2013 ha accolto il 44% delle 19.000 domande di asilo pervenutele. Ma tre anni fa vivevano sul territorio svedese circa 93.000 rifugiati, oggi sono quasi il doppio. Perché, noi svedesi, dovremmo mettere a disposizione tutta la nostra collaudata rete sociale, quando la Grecia lascia passare persone che hanno come destinazione il nostro paese? È questa, brutalmente, la domanda che i ministri del nord rinfacciano a quelli del sud, il ragionamento – semplicistico prima che “amorale” – che rischia di liquefare lo spazio di libera circolazione. Con esso, nell’atto di “difenderci” sembriamo dimenticarlo, verrebbe meno una delle fondamentali libertà europee che il Trattato di Lisbona (la “Costituzione dell’Ue”) garantisce ai suoi cittadini. Alla “doppia pena” inflitta ai migranti – così il sociologo Alessandro Dal lago ha definito le recenti misure danesi – si aggiunge così un danno autoinflitto. Sempre nel nome della sicurezza.

Foto By Joachim Seidler, photog_at from Austria – 20150904 174, CC BY 2.0, $3