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Fai la penitenza

«Fai un salto, fanne un altro, fai la riverenza, fai la penitenza, guarda in su, guarda in giù, dai un bacio a chi vuoi tu». Qualcuno ricorderà questa filastrocca alla fine di un gioco, quando ancora ci si andava a divertire nei polverosi cortili, a giocare insieme e non ciascuno isolato (ma connesso!) con il suo I-pod…

Già, fai la penitenza. Perché piacesse il bacio è evidente. Ma la penitenza, quella prescritta in tempo di Quaresima (ci siamo) doveva essere una cosa seria. I miei genitori però mi hanno anche sempre detto che riguardava i cattolici. In effetti «nella liturgia cattolica la quaresima è un periodo di penitenza di quaranta giorni in preparazione della Pasqua, dal mercoledi delle Ceneri al sabato santo, regolato in passato da precise disposizioni circa l’astinenza e il digiuno» (Devoto-Oli).

Non so bene che cosa succeda oggi nelle chiese cattoliche italiane. Mi ricordo che, quando ero alle elementari di Pinerolo (fine anni ’40), il mercoledì mattina dopo Carnevale, i miei compagni arrivavano a scuola con un segnetto grigio sulla fronte. Il segno della penitenza, del perdono ricevuto dal prete per i “peccati” del martedì grasso, del giovedì anch’esso grasso e di varie altre proibizioni ignorate. Ma perché questo passaggio repentino dalla sfrenata atmosfera dell’ultimo giorno di Carnevale, con le sue mascherate, esagerazioni di cibo e non solo alle contrite e un po’ ipocrite espressioni del mercoledì scolastico con il segno dell’umiliazione?

Non che le ceneri e la polvere non siano citati varie volte nella Bibbia (siamo polvere e polvere ritorneremo, coprirsi il capo di ceneri come segno di umiliazione), ma poiché anche il Carnevale è una festa tradizionale dei paesi cattolici (sembra che l’unica festa simile in un paese protestante si svolga a Basilea, con i “tre giorni più belli dell’anno”, il Fasnacht), tutta questa sequenza di esagerazioni “peccaminose” seguite da un tocco di ceneri e da una rapida assoluzione da parte del sacerdote, mi sembrava un facile giochetto. Tanto più che il sacerdote, nel confessionale, quando ti assolve e di dà un tot di preghiere da recitare come penitenza, lo fa nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ma è lui, il sacerdote, cioè la Chiesa che perdona, (ego te absolvo, in nomine Patri…). Nel confessionale cattolico ci può essere solo un prete, un intermediario tra la chiesa e Dio. Diversa è nel culto riformato la preghiera di confessione e l’annuncio del perdono di Dio, che non passa attraverso il pastore.

Tornando a Quaresima e penitenza, i riformatori si rifiutarono di riconoscere la penitenza come sacramento perché l’osservanza del digiuno, dell’astinenza e altre norme poteva essere intesa come “buona opera” messa in conto della propria salvezza. Era l’epoca della compravendita delle indulgenze. Affermando che siamo salvati per la sola grazia di Dio e non anche in virtù di buone opere, la Riforma, pur senza negare la positiva realtà della penitenza, non la può accettare come sacramento). I riformati hanno infatti solo i due sacramenti istituiti da Gesù: battesimo e Santa Cena. La Rifoma non svalorizza le buone opere: esse tuttavia non aiutano la nostra salvezza e non costituiscono alcun merito. Ma poiché l’albero buono dà buoni frutti, così, dato che per noi l’essenziale è stato compiuto nel sacrificio di Cristo,(la fede in Lui è l’albero buono) siamo completamente liberati dalla preoccupazione della salvezza (nel medioevo questo era IL problema) e possiamo liberamente spenderci nelle buone opere, che non servono a noi, ma al nostro prossimo.

Qui ritroviamo anche un modo diverso e spiritualmente valido per interpretare la Quaresima, la quale non è solo cattolica, ma anche protestante, per esempio in un paese come la Francia. E per quanto riguarda il digiuno, anch’esso raramente praticato, esso è nominato in alcuni antichi testi valdesi (come la Confessione di fede del 1655): «le buone opere sono tanto necessarie a’ fedeli che non possono giungere al regno dei cieli senza farle, atteso che Iddio le ha preparate acciocchè in esse noi camminiamo: che così dobbiamo fuggire i vitij et applicarci alle virtù christiane, impiegando digiuni et ogni altro mezzo che può servirci in una cosa così santa». Ricordiamo anche che il Sinodo delle chiese metodiste e valdesi, nel 2009, decise di digiunare anche se solo per un pasto, come forma di protesta contro una normativa ingiusta nei confronti degli immigrati. Si associò anche il vescovo Giachetti.

Il mensile regionale protestante Reveil si interroga, nel numero di marzo, con un dossier intitolato “Carême: pain et partage”. Il Carême (quaresima) può ancora avere un senso? La risposta è positiva se essa «costituisce un periodo di raccoglimento, di messa in discussione del nostro modo di vivere, non per riprendere le vecchie abitudini dopo Pasqua, ma come inizio di una conversione. Tutti siamo invitati a ritrovare l’essenziale, il centro, tralasciando il superfluo. A ritrovare la nostra vera sorgente. “Il Maestro ti fa dire: il mio tempo è vicino, farò la Pasqua con te, con i miei discepoli” ( Matteo 26, 18)».

Foto: La lotta di Carnevale a Quaresima, Pieter Brueghel il Vecchio, 1559 – [1], Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11713813