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Stati fragili

Il Fragile State Index, che dal 2005 il Fund For Peace (Ffp) pubblica ogni anno, riassume in una classifica la condizione dei paesi del mondo. Quante e quali pressioni stanno sopportando? Quali di questi sono i più deboli? Quali i più instabili? Quali sull’orlo del fallimento? Per rispondere a queste domande, l’indice utilizza diversi parametri sociali ed economici: la pressione demografica, la presenza di rifugiati, il grado di attivismo di gruppi ostili tra loro (anzitutto etnici), il tasso di «fuga dei cervelli», i livelli di disuguaglianza e povertà, la legittimità delle istituzioni, le condizioni del servizio pubblico, il rispetto dei diritti umani, la garanzia della sicurezza, il frazionamento politico, la probabilità d’intervento esterno. Per ognuna di queste voci viene attribuito un punteggio da 0 a 10, deciso sulla media di diverse fonti, selezionate con scrupoloso metodo scientifico – ogni anno il Ffp analizza milioni di documenti.

Vediamo insieme i dati più interessanti dell’indice del 2015, cercando di capire quali siano le zone fragili del pianeta (detto in altri termini: quanto possiamo considerarci fortunati).

Cominciamo dal fondo, dunque dai paesi «virtuosi». Secondo il Ffp, lo stato «più sostenibile» del mondo è la Finlandia, seguito dai compagni scandinavi (Svezia, Norvegia e Danimarca), dal Lussemburgo, dalla Svizzera e dalla Nuova Zelanda. Nel gruppo dei «sostenibili», insieme a Canada e Australia, troviamo unicamente stati europei: nell’ordine Austria, Olanda, Germania e Portogallo. Su Francia e Belgio pesa l’allarme terrorismo, ma non abbastanza da fargli perdere l’etichetta di «highly stable», la stessa che possono vantare Stati Uniti, Regno Unito e Giappone. L’Italia? Complici i pessimi voti economici e la presenza endemica delle mafie il Ffp la colloca nei «very stable», in compagnia di Spagna e Ungheria. Se i colossi Cina, India e Russia si attestano, il dato fa riflettere, a metà classifica – i primi due etichettati «warning», il regno di Putin addirittura «high warning», con un 9.3 totalizzato sulla violenza interna – Yemen, Siria, Afghanistan, Iraq e Pakistan, insieme nel gruppo «high alert», non sono i più fragili, perché nei primi quattro si collocano, in ordine, il Sud Sudan, la Somalia, la Repubblica Centrafricana e il Sudan. Stati, questi ultimi, non soltanto estremamente poveri, ma dilaniati da infiniti conflitti interetnici che impediscono l’emersione di una pubblica autorità riconosciuta da tutti – per avere la dimensione dell’instabilità di questi paesi si consideri che la Libia, il cui governo riconosciuto dall’Onu al momento è ancorato al porto di Tripoli, occupa il venticinquesimo posto nella classifica del Ffp.

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In realtà, da sola, la classifica del 2015 racconta poco. Ecco perché quest’anno, in occasione della sua undicesima edizione, il rapporto ha elaborato anche una carta dell’andamento dei singoli paesi durante il decennio di monitoraggio. Con 14.5 «punti fragilità» in meno rispetto al 2006, il paese che si è rafforzato maggiormente è Cuba, riportata all’onor del mondo dalla recente visita del presidente Obama; ma nel gruppo di chi ha cambiato passo troviamo anche la Germania (con 11.6 «punti fragilità» in meno rispetto all’anno in cui Angela Merkel prese il potere) e tre paesi balcanici: Croazia (membro Ue dal luglio 2014), Bosnia Erzegovina e Macedonia (stati in marcia verso l’Ue, ma ancora divisi al loro interno, su linee etniche e religiose). Sempre nell’Europa dell’est dal 2006 a oggi sono migliorate le condizioni di Romania, Polonia, Albania e Bulgaria; peggiora per ovvie ragioni l’Ucraina (+3.4), ma mai quanto Belgio e Italia (rispettivamente +6.4 e +8.1), mentre con +11.5 «punti fragilità» precipita la Grecia. Fuori dall’Europa salgono Russia (-7.1) e Cina (-6.1), mentre si ridimensiona la performance gli Stati Uniti (+0.8). In caduta libera, non sorprende, i due paesi che l’attualità descrive «da allarme rosso»: Libia (+26.8) e Siria (+19.3).

Quali conclusioni trarre dalla lettura del rapporto? Alla pari di altri studi internazionali, anche l’ingegnoso «indice di fragilità» ideato dal Ffp non disegna altro che una mappa per orientarsi nelle complessità globali. Non dobbiamo quindi attribuirgli significati che non può avere, ma sarebbe parimenti un errore ignorare le criticità che, con metodo scientifico, questo studio individua e indica.

Sintetizzando all’estremo, le certezze inequivocabili sono due. Primo. In Europa si vive bene, al di sopra della media del mondo. Un’ovvietà? Non sembra, visto lo sconcerto che suscita negli europei la direzione delle migrazioni dall’Africa e dal Medio Oriente. Secondo. Conflitti e sofferenza piagano le popolazioni di numerosi paesi, soprattutto in quelli che l’Index individua come più fragili. Tuttavia, se lette nel tempo, le classifiche del Ffp ci inducono a nutrire speranza, perché anno dopo anno gli stati che si rinforzano sono più di quelli che si indeboliscono (nella maggioranza dei paesi si vive meglio rispetto a dieci anni fa, e soprattutto nell’ultimo biennio si è registrato un miglioramento generale). Per dirla con le parole del rapporto: «Come comunità internazionale abbiamo il dovere di riconoscere dove instabilità e fragilità persistono, di adottare misure per attenuarle. Allo stesso tempo, il Fragile States Index invita a riconoscere i grandi passi in avanti che molti paesi stanno conducendo. Per quanto la fragilità persista in diversi angoli del globo, a conti fatti la stabilità e la prosperità è significativamente in aumento».

Fornita la mappa, non ci resta che scegliere la direzione su cui incamminare il mondo.

Foto: via flickr.com, autore Aqua Mechanical