rouhani_in_astrakhan_29_september_2014

Troppe divisioni affossano il summit per la cooperazione islamica

Fratelli coltelli. È finito quasi con un tutti contro tutti a Istanbul il summit dell’Oic, l’Organizzazione di cooperazione islamica, uno dei più importanti raggruppamenti di nazioni appartenenti per l’appunto al mondo islamico, rappresentante di 57 paesi. Ma c’era purtroppo da aspettarselo date le forti tensioni geopolitiche da un lato e religiose dall’altro che stanno lacerando le già fragili relazioni costruite faticosamente in lunghi anni. Turchia ed Egitto alle prese con una crisi diplomatica che dura oramai da tempo, Arabia Saudita e Iran da sempre ai ferri corti per la diversa visione teologica che li contrappone – sunniti i primi, sciiti i secondi – e ora ancora più distanti con il ritorno di Teheran sulla scena economica internazionale a seguito della fine del lungo embargo, con il conseguente rischio di crisi della supremazia saudita nella gestione del mercato del petrolio, e quindi del dominio strategico dell’area mediorientale. E poi le frizioni fra Ryad e il Libano, fra i curdi e la Turchia, fra Yemen e ancora l’Arabia Saudita, vera mattatrice dell’incontro che ha lasciato molte delegazioni con l’amaro in bocca. Intanto il ministro degli Esteri egiziano, inviato al posto del presidente Al Sisi si è limitato ad un vero e proprio blitz: il protocollo prevedeva il passaggio di presidenza di turno dell’Oic dall’Egitto alla Turchia, avvenuta senza nemmeno una stretta di mano, cui è seguito un breve discorso. Nell’arco di due ore il ministro egiziano Sameh Shokri era di nuovo sulla scaletta dell’areo destinazione Il Cairo. Ha trovato comunque il tempo per un breve colloquio con il presidente turco Erdogan: di questi tempi quasi un miracolo che lascia qualche margine di speranza alle colombe.

Pure il presidente iraniano Hassan Rouhani ha abbandonato i lavori prima della fine, una volta appreso che nel testo di chiusura della due giorni -14 e 15 aprile – vi sarebbero stati quattro punti di condanna nei confronti della politica iraniana, accusata di appoggiare il terrorismo e di tentare di limitare la sovranità di alcuni paesi come il Bahrain, lo Yemen, la Siria e la Somalia interferendo nei loro affari interni. Cresce nel mondo musulmano il tentativo di isolare Teheran: Turchia, Arabia Saudita, i paesi del Golfo, l’Egitto, spaventate dal ritorno in auge della repubblica degli ayatollah, accusano quest’ultima di armare Hezbollah per destabilizzare l’area, mentre i media di Beirut li considerano l’unico gruppo islamico rimasto a combattere l’Isis. Nessuna parola invece sul conflitto a senso unico in corso da oltre un anno fra Arabia e Yemen, chiaro segnale dell’orientamento generale dell’assemblea, fortemente influenzata dallo strapotere saudita. Silenzio anche sul dramma di milioni di profughi, per lo più siriani,che stanno fuggendo dalle guerre in corso, e poche battute riservate all’Isis, considerato minaccia anche per tutto il mondo islamico.

Il vero colpo di teatro è stato forse l’incontro fra Rohani e Erdogan: nonostante le divisioni profonde nella politica dei due paesi, cresciuta ancora con la crisi siriana che li vede su due fronti opposti, uno ha evidentemente bisogno dell’altro. Rohani sta freneticamente incontrando i leader mondiali per riposizionare sullo scacchiere economico globale Teheran, e la Turchia ha fortemente bisogno del gas iraniano. Per un po’ di denaro fresco si possono chiudere gli occhi sui tanto sventolati rancori.

Foto Von Kremlin.ru, CC-BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=35841316