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Cosa succede a Unifil?

Mercoledì 25 maggio il quotidiano spagnolo El País ha pubblicato un’inchiesta su un presunto traffico illegale di alimenti nel quale sarebbe stata coinvolta la missione delle Nazioni Unite in Libano, Unifil, a cui partecipano anche soldati italiani. Il traffico illegale di alimenti, racconta El País, riguarderebbe alcune razioni destinate esclusivamente al personale Onu, ma trovate anche in alcuni supermercati del Libano.

«Al momento – spiega Andrea Tenenti, portavoce di Unifil – non ci sono prove che possano confermare una sistematica operazione legata al transito di alimenti o ancor meno il coinvolgimento di alcuni contingenti». Pur non fornendo ulteriori dettagli, principalmente per motivi di riservatezza, Tenenti ha anche spiegato che «è nell’interesse dell’organizzazione fare luce su eventuali illeciti perpetrati o meno all’interno della propria struttura».

Il momento per Unifil è complesso, perché da un lato l’inchiesta dovrà confermare o smentire le accuse, mentre a luglio è previsto un passaggio di consegne tra l’attuale comandante, il generale italiano Luciano Portolano, e il generale irlandese Michael Beary.

Se si appurasse l’esistenza di episodi del genere, la fiducia nei confronti di Unifil potrebbe subire dei danni?
«Non credo. La missione si inserisce in un contesto complesso come quello mediorientale e fino ad adesso vive della fiducia sia della popolazione sia delle autorità libanesi che hanno voluto fortemente questa missione. La missione è qui dal 1978, ma con la risoluzione 1701 del 2006 è cambiata molto e si è rafforzata. Negli ultimi dieci anni il sud del Libano ha vissuto un periodo di grande calma, il meno conflittuale degli ultimi trent’anni, e i benefici sono evidenti».

A distanza di dieci anni dall’ultimo conflitto tra Israele e Libano, qual è il senso oggi della presenza di Unifil?
«Se possibile ha ancora più senso oggi, perché nel complesso quadro mediorientale, soprattutto con quello che sta succedendo nella vicina Siria, Unifil si propone come una garanzia di stabilità. È di vitale importanza per noi continuare nel processo di pacificazione in cooperazione con le forze armate libanesi. Inoltre bisogna anche ricordare che per la prima volta in trent’anni le forze armate libanesi sono ritornate nel sud del Paese, e questo è un passaggio decisivo per il monitoraggio di quella che è la cessazione delle ostilità».

Concretamente, in che cosa consiste l’attività di una forza di interposizione oggi?
«I compiti principali di Unifil in questo momento riguardano il monitoraggio della cessazione delle ostilità, e questo è avvenuto: negli ultimi dieci anni, a parte alcuni incidenti che sono stati tutti contenuti, la situazione tra Israele e Libano è stata piuttosto stabile. Un altro compito importante è supportare il dispiegamento delle forze armate libanesi lungo il sud del Paese, inclusa la linea di demarcazione, cioè la linea entro la quale si sono ritirate le truppe israeliane nel 2000, e questo è complesso anche perché non c’è un vero confine tra i due paesi, che formalmente sono ancora in guerra. Di conseguenza, da parte di Unifil c’è l’impegno a fornire supporto per una soluzione a lungo termine, basata sul pieno rispetto della Blue line e sull’impedimento di qualsiasi attività ostile, quindi a fare in modo che non entrino armi nel sud del Libano».

Parlando invece di supporto ai civili, quali forme di collaborazione si sono sviluppate in questi anni con la popolazione locale?
«La missione Unifil non è una missione umanitaria, però ha un elemento di assistenza umanitaria molto forte, al punto che ogni anno vengono attivate o mantenute centinaia di attività svolte con la popolazione allo scopo di ricostruire il sud del Libano. Per esempio, in quest’area non ci sono veterinari, per cui la maggior parte dell’assistenza veterinaria viene fornita dalle forze dei diversi contingenti che fanno parte della missione Unifil. Insieme a questo si lavora anche sull’assistenza medica, sia come dispiegamento di medici, sia per la formazione in diverse sezioni dell’area di operazione, e per finire anche attività nelle scuole. La nostra è un’area relativamente piccola, sulla quale possiamo lavorare con un gran numero di caschi blu che quotidianamente aiutano in queste attività».

Nel territorio in cui opera Unifil si trovano alcuni importanti campi palestinesi, come quello di Burj Al Shamali e quello di Rashidieh. Quali sono i rapporti con la popolazione palestinese nell’attuale periodo di grande pressione, dovuto all’arrivo di moltissimi siriani, in alcuni casi Palestinesi a loro volta?
«La missione non ha presenza nei campi palestinesi, non c’è mandato nei campi palestinesi, quindi il controllo viene fatto dalle forze armate libanesi. Va detto che l’arrivo dei rifugiati siriani ha avuto un minimo impatto. Dico «minimo» perché nel sud del Paese ci sono al momento 50.000 rifugiati siriani, mentre in tutto il Libano, secondo i dati ufficiali di Unhcr, sono 1,3 milioni ufficiali, per cui non è cambiato molto anche nei nostri rapporti con la popolazione».

La missione Unifil era nata come interim mission, quindi a carattere temporaneo, eppure è sul territorio dal 1978. Il suo mandato ormai è a tempo indeterminato?
«Dipende tutto dal raggiungimento degli obiettivi: lo scopo principale è far sì che le forze armate libanesi riprendano completamente il possesso del sud del Libano e anche far in modo che abbiano le capacità necessarie per riuscire a lavorare non soltanto nel sud, ma nell’intero Paese. Il fatto è che nel 2006 nessuno avrebbe pensato che la situazione in Siria potesse diventare quella attuale, quindi anche per questo la missione ha ancora più ragione di essere qui rispetto a dieci anni fa.

La cosa più importante è cercare di riuscire, attraverso la coordinazione con entrambi i Paesi, a muoversi da una cessazione delle ostilità a un “cessate il fuoco” permanente. Non dimentichiamo che i due Paesi sono ancora in guerra, ed è importante che questa missione permetta a entrambi i Paesi di parlarsi in occasione degli incontri del gruppo tripartito per portare avanti le loro problematiche e muoversi verso una vera pace. Questo però spetta ai due Paesi, noi possiamo solo aprire la finestra».

Foto: Marco Magnano