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La follia e la fiaba per parlare della nostra incultura

Quando Paolo Virzì ha girato La pazza gioia, erano passati quarant’anni dall’uscita di Qualcuno volò sul nido del cuculo, (1975) il film di Milos Forman sull’universo della follia, interpretato da Jack Nicholson. A volte, tra analogie e differenze, si può cogliere il fascino di un film. Nicholson alias McMurphy si trovava in una struttura rigidissima, basata più sulla violenza che sulle cure. Elettroshock e lobotomia all’ordine del giorno. Pochissimi personaggi femminili (a parte la tremenda caposala), un universo della follia maschile. La pazza gioia è invece ambientato in una casa di cura femminile. Qualcuno volò sul nido del cuculo respirava l’aria di grandi battaglie sociali, la temperie dell’antipsichiatria che aveva attraversato l’Inghilterra e il mondo anglosassone, con echi che sarebbero perdurati anche in Italia (ed esiti importanti come la legge Basaglia): quei personaggi portavano con sé il peso di una rivendicazione collettiva, agenti di una causa, costretti a non essere semplicemente se stessi.

Nel film di Virzì (Ovosodo, La prima cosa bella, Il capitale umano) le due protagoniste, una donna di nobili e sussiegose origini vissute peraltro in svaporata allegria, e una ex-cubista ricoverata dopo soggiorni in carcere e in ospedale psichiatrico giudiziario (si era gettata in acqua con il bambino di un anno e mezzo) rappresentano invece solo se stesse. Il loro vivere quotidiano si basa certo sugli espedienti (Beatrice si ritiene non-malata e avendo orecchiato a sufficienza i discorsi dei medici, si finge addirittura psichiatra quando viene ricoverata Donatella – e questo è un omaggio al miglior film di Woody Allen, Zelig, il cui protagonista, appunto, pretendeva di curare la propria psichiatra), per un anelito di libertà non meglio definito, per un’istintiva ricerca della gioia del vivere (una camera migliore, un’«uscita fuori porta», un po’ di musica). Non sono le loro, delle rivendicazioni: la loro vita non è un percorso, un itinerario con meta prefissata; è un dibattersi, un istintivo reagire alle difficoltà e gli ostacoli.

Questi ultimi si susseguono a cascata nel momento in cui loro, diventate amiche, scappano più per fare un giro che per trasgredire; e d’ora in avanti gli incontri sono quello che sono: gente per bene e gente «per male», anzi, malissimo, dal porcellone che punta a combinare un’orgetta nel locale di un amico all’ex-amante di Beatrice, un truffatore agli arresti domiciliari; e poi il padre del bambino di Donatella, che la pagò perché sparisse – e dopo il tentato suicidio isieme al bambino, qust’ultimo finisce in adozione. Due coppie di genitori, fatui, isterici e fuori del mondo accennano alle loro origini, nobiltà decaduta per l’una, artistiche per l’altra (il padre di Donatella millanta la paternità di una canzone in realtà di Gino Paoli).

Elementi comuni negli incontri delle due donne? La volgarità di chi sta loro intorno; non solo quella a sfondo sessuale; i soldi che girano; e ancora la volgarità delle banalità di cui si riveste un ambiente sociale e culturale immiserito. Poi, certo, Beatrice nella sua propensione a «contar balle», si illude di poter raggirare ristoratori e bancari millantando parentele (vere, ma decadute) e amicizie (immaginarie, come quelle con i protagonisti di un vertice G-7, il presidente Clinton per esempio). Certo, questa è la sua malattia, ma è anche l’aria che tira intorno a tutti noi. In questa cultura, fatta di apparenza e vacuità, la distinzione tra vero e falso è ovviamente tangibile, ma spesso è considerata irrilevante. Non stupisce che le oritagoniste finiscano anche da una maga: il fatto è che dagli illusionisti (non tutti al luna park) ci va anche chi non parrebbe malato. Tutto può andar bene, in definitiva, per far casino una notte, al Carnevale di Viareggio, a Montecatini, sulla spiaggia. Qui si svolge anche il finale affidato a Donatella che, non si sa se nella realtà oppure in una visione successiva allo shock – è stata investita da una moto – incontra il figlio ormai di 6-7 anni con la famiglia adottiva, i cui componenti, emozionati, li lasciano giocare insieme.

Il film è struggente, perché la dimensione fiabesca di cui è capace Virzì avvicina l’esistenza di due malate, che sono se stesse, alle esistenze nostre. Non è colpa di Betarice e Donatella se la vita reale è fatta di finzione (il «grande» autore di canzoni, che in realtà suona in un piano bar e non compone), di inganni accettati come si accettano i compromessi al ribasso e le umiliazioni, di fuochi fatui. Poi qualcuno non ce la fa più, capisce l’umiliazione a cui è costrtta e non regge più, perde il contato con una realtà detestabile e si ribella anche in nome nostro, e ci rivela a chi ci siamo affidati, allegramente inconsapevoli.

Immagine: un fotogramma del film (via https://www.facebook.com/lapazzagioia)