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L’incanto della vita in un cinema di poesia

Con Abbas Kiarostami il cinema perde uno dei suoi ultimi maestri: il regista iraniano, scomparso il 4 luglio a Parigi all’età di 76 anni, è stato uno degli ultimi a presentarsi al pubblico con una cifra personalissima, riconoscibile ma in grado di parlare universalmente. E questo avveniva nonostante egli fosse il capofila di una cinematografia nazionale molto connotata, come quella iraniana, che comprende i lavori (e capolavori) di Mohsen Makhmalbaf, della figlia Samira Makhmalbaf, di Jafar Panahi. Una «scuola» che ha fatto irruzione sui nostri schermi negli anni ’80-’90, ma che aveva visto già attivi i suoi autori fin dagli anni ’70.

Di fronte alle scuole cinematografiche di paesi lontani è sempre difficile riuscire a pronunciare giudizi calibrati: pesano, a volte, retroterra politici, censura e persecuzioni (si pensi al turco Ylmaz Güney, che diresse il celebrato Yol dal carcere). E pesa sui nostri giudizi anche il carattere un po’ modaiolo, che a volte guida con la sua manina non del tutto innocente le strategie del mercato: così pure in letteratura si succedono le ondate dei giapponesi, o quella dei latinoamericani, o caraibici; all’interno delle quali, però, giocoforza alla fine vengono fuori i valori veri, le caratteristiche e le poetiche di ognuno e ognuna.

Così Kiarostami, autore di un «cinema di poesia» che fu a suo tempo vagheggiato, inseguito e mai compiutamente realizzato da Pier Paolo Pasolini (che provò anche a elaborarne una teoria, in realtà non molto chiara), è risultato subito capace di costruire delle opere basate su trame che sembrano minime: fatti personali, all’apparenza banalità del vivere, quasi sempre di ambientazione rurale, che però possono trasformarsi in snodi decisivi dell’esistenza. Il viaggiatore (1974) racconta degli sforzi fatti per mettere in pratica un’idea balzana quanto radicalmente vissuta: un ragazzo cerca di arrivare con ogni mezzo a vedere una partita della nazionale a Teheran.

La consacrazione del regista, che raggiungerà notorietà con Il sapore della ciliegia (1997, Palma d’oro come miglior film al Festival di Cannes) e Il vento ci porterà via (1999), belli ma un po’ ripetitivi, sta invece nella trilogia (1987/1992/1994) che parte da un film basato sull’amicizia tra bambini: Dov’è la casa del mio amico?. Vi si narra la rincorsa angosciata di uno scolaro per venire in soccorso del suo compagno che sta per andare incontro a una severa punizione da parte del maestro. Mohamed ha infatti lasciato il quaderno nella cartella del compagno, che vuole restituirglielo ma non sa dove Mohamed abiti (da qui il titolo): il bambino attraversa i luoghi, passando e ripassando per vicoli, aie, incontrando animali da cortile e indifferenza, finché riesce nel suo poeticissimo intento.

Poi però sull’Iran si abbatte il terremoto del 1990: proprio la provincia in cui era stato girato Dov’è la casa del mio amico? risulta essere la più colpita. E la vita continua mette in scena dunque il viaggio di un uomo e del suo figlio alla ricerca dei bambini che avevano interpretato il primo film, passando per le rovine, le case abbattute, i senzatetto, in uno struggente poema sulla voglia di vivere nonostante tutto. Il terzo capitolo, Sotto gli ulivi è invece intimista: all’interno della troupe del primo film potrebbe nascere una storia d’amore tra un giovane attore non professionista e un’altra interprete della pellicola.

A partire da una «storia da niente», Kiarostami realizzò dunque non uno ma ben tre film. La sua arte era di cogliere ciò che sta dietro ai fatti grandi e piccoli della vita. Non una metafisica, certo; non un discorso religioso (anche se dei modi di comportarsi di matrice e origine religiosa appaiono qua e là, per esempio nei saluti che si scambiano i personaggi – «sia benedetta la vostra mano»). Un discorso di un umanista, che coglie però la magia e l’incanto della vita. Se pure dietro di essa non c’è un dio o una essenza metafisica, c’è tuttavia qualcosa che a noi sfugge, un «di-più» di senso che riemerge inaspettato, ed esplode liberatrice nelle emozioni tenute nascoste per paura del potere (il maestro severo), per esitazione e timidezza (il giovane attore innamorato), per senso della dignità (i terremotati).

Da credenti siamo portati nelle nostre vite e nelle nostre città o valli alpine a cercare un senso al di là dei puri fatti della vita; e dobbiamo parlarne con i nostri concittadini e concittadine che magari credenti non sono. A volte, quindi, andiamo in difficoltà e balbettiamo un po’. Confrontarci con chi cerca il senso dell’esistenza nelle «cose minime», convinto che un senso, tutto terreno, ci sia, non può che aiutarci a esprimere meglio le convinzioni della nostra fede. Ci può aiutare anche l’opera di questo regista visionario, che fra l’altro fu anche poeta, e che in composizioni brevissime ci ha detto per esempio: «Mi disseto/ a un miraggio,/ che ci crediate o no» (Un lupo in agguato. Poesie, Einaudi, 2003).

Immagine: By Mohammad Hassanzadeh – http://www.tasnimnews.com/fa/media/1, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=49927291