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Capire la paura e il disagio di tutti, un dovere per le chiese

La violenza razziale sconvolge ancora l’America. Tra il 5 e il 6 luglio la polizia uccide due cittadini afro-americani: Alton Sterling, 37 anni, in Louisiana; e Philando Castile, 32 anni, in Minnesota. Entrambe le uccisioni vengono riprese con i cellulari e i video diffusi su Internet: subito manifestazioni di rabbia e dolore si svolgono in diverse città americane.

Il 7 luglio a Dallas (Texas), proprio durante una marcia di protesta contro le morti dei due giovani afroamericani organizzata dal movimento Black lives matter (le vite dei neri contano), un cecchino spara contro le forze di polizia che accompagnavano il corteo dei manifestanti, uccidendo cinque agenti e ferendone una decina. La mano armata è di Micah Xavier Johnson, afroamericano di 25 anni, che viene ucciso tramite un ordigno controllato a distanza. Ai negoziatori della polizia, Johnson aveva detto di essere molto arrabbiato per il trattamento riservato agli afroamericani, di voler uccidere dei bianchi, soprattutto poliziotti.

Fin dal venerdì sera, 8 luglio, veglie di preghiera si sono tenute in diverse chiese di Dallas e non solo. Si prega per le famiglie dei poliziotti morti ma anche per quelle dei giovani afroamericani uccisi ancora una volta con troppa facilità dagli agenti di polizia americani (nel 2015 i neri uccisi dalle forze dell’ordine sono stati almeno 346; per gli afroamericani, la probabilità di essere uccisi dalla polizia è tre volte maggiore che per i bianchi. Fonte: Mapping Police Violence).

Obie Bussey, pastore della Golden Gate Missionary Baptist Church, di Dallas – una congregazione afro-americana che solo qualche settimana prima aveva ascoltato la predicazione di un pastore bianco presbiteriano, nell’ambito di un progetto di «scambio di pulpito» lanciato l’anno scorso e finalizzato alla costruzione di relazioni interrazziali, a cui hanno aderito 100 pastori della zona – ha detto che la chiesa continuerà a pregare per la riconciliazione razziale e la sicurezza delle forze dell’ordine. «Nessuno in questo momento ha il coraggio di dire “capisco la paura e la sfiducia presenti nella comunità afro-americana”, e, allo stesso tempo, “vedo che la polizia ha un lavoro difficile da svolgere con queste comunità”. Credo che questo sia compito della Chiesa», ha detto Bussey.

Anche il Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) ha subito espresso la sua vicinanza alle chiese membro negli Usa, condannando gli atti di violenza che hanno sconvolto la nazione e tutto il mondo. Agnes Abuom, moderatrice del Comitato centrale del Cec, ha espresso cordoglio e la speranza che le crescenti tensioni razziali abbiano fine, rinnovando l’impegno del movimento ecumenico a lavorare contro il razzismo e la discriminazione, cause principali della rabbia e della violenza.

Con facile ottimismo alcuni avevano pensato che con l’elezione di un presidente afroamericano l’America avesse saldato il conto con il suo passato di razzismo. Invece, le uccisioni di persone di colore in Louisiana, in Minnesota, in Texas (mentre chiudiamo il giornale, arriva la notizia di un altro afroamericano ucciso dalla polizia nella città texana di Houston) non sono che gli ultimi anelli di una catena di atti violenti che dimostrano che la divisione razziale è un dato di fatto della società americana.

Ma come si poteva pensare, in una nazione dove il razzismo è presente nella sua storia dal 1600, che questo male si sarebbe potuto sradicare nel giro di un decennio? Il teologo e politologo americano Jim Wallis, nel suo libro America’s Original Sin: Racism, White Privilege, and the Bridge to a New America, sostiene che, per superare i conflitti razziali, gli americani devono prima confessare ciò che egli chiama «i loro peccati originali»: la schiavitù e il razzismo. Se i genitori afroamericani ordinano ai propri figli di stare alla larga dai poliziotti, nel caso in cui smarriscono la strada verso casa, vuol dire che esiste ancora «una supremazia bianca» che va contrastata. La differenza, secondo Wallis, la possono fare i cristiani bianchi che «devono agire più come cristiani che come bianchi».

Commentando i fatti di Dallas, il pastore battista Jesse Jackson, storico leader dei diritti civili della comunità afro-americana negli Stati Uniti, che fu compagno di lotta di Martin Luther King, ha detto che, in un Paese ancora profondamente diviso non solo su basi razziali ma anche economiche, c’è ancora molto lavoro da fare in questa «lunga battaglia per la pace e la giustizia».

Le chiese possono fare la loro parte. Il sogno di M. L. King potrà un giorno pienamente realizzarsi se ci saranno uomini e donne, bianchi e neri, che, seguendo l’esempio di Gesù che ha abbattuto i muri di separazione (Ef. 2, 14) – non in un giorno, ma nel procedere degli anni – vorranno incontrarsi, conoscersi, imparare a rispettarsi, e dare il proprio contributo nella costruzione di una società riconciliata, giusta, inclusiva, senza distinzioni per colore della pelle, origine sociale, credo religioso e orientamento sessuale.

Immagine: via flickr.com, utente Tony Webster