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Ospitalità, rinchiusi, reclusi: le parole dell’immigrazione

Sin dall’epoca classica, in cui la Grecia rappresentava il centro del mondo e il Mediterraneo il fulcro della civiltà, i concetti di “ospite” e “ospitalità” hanno rivestito un ruolo decisivo nella creazione di un’identità comune tra i popoli che vivevano lungo le sue coste.

Nella cultura dell’antica Grecia, infatti, la xenia imponeva che il padrone di casa rispettasse il proprio ospite in modo quasi divino, considerando l’accoglienza un onore.

Anche oggi si sente spesso dire che “l’ospite è sacro”, ma l’esperienza di luoghi come i Centri di identificazione ed espulsione, in cui chi viene rinchiuso viene definito “ospite”, fanno capire quanto il termine sia stato progressivamente svuotato di senso.

Un’inchiesta pubblicata su L’Espresso e realizzata dal giornalista Fabrizio Gatti, che si è finto richiedente asilo per trascorrere una settimana all’interno del Cara di Foggia, uno tra i dieci Centri di accoglienza per richiedenti asilo presenti sul territorio italiano, ha portato all’attenzione nazionale le condizioni in cui si trova a vivere chi viene “ospitato” al suo interno. Il terzo Cara per dimensioni in Italia è stato infatti definito un “ghetto di Stato”, con dormitori stracolmi e condizioni igieniche inaccettabili, e il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha annunciato un’indagine governativa in tutte le strutture per affrontare una situazione insostenibile.

Secondo Patrizio Gonnella, presidente della Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili e dell’Associazione Antigone, che da anni si occupa delle condizioni detentive nel nostro Paese, è necessaria una riflessione sul modello di gestione di questi luoghi, affidati a realtà private e dimenticati dallo Stato, che invece dovrebbe risponderne direttamente.

Nel linguaggio delle strutture di accoglienza italiane le persone che vi si trovano all’interno sono definite “ospiti”. Ma non stiamo usando questo termine in modo distorto?

«Il concetto di ospite ci rimanda a un’antica tradizione filosofica. Con una breve indagine etimologica sulla parola ospite, sulle sue origine greche e latine, si scoprono già tutte le contraddizioni che ci sono intorno al cattivo uso di questa parola.

In realtà, l’uso improprio del linguaggio è qualcosa che chi si occupa di diritti umani, libertà civili, giustizia e carceri vediamo spesso, così come chi si occupa di disabilità. Mi sembra opportuna un’incursione su quest’ultimo terreno: c’è un bellissimo libro, scritto da un ricercatore milanese, Massimiliano Verga, che si chiama Zigulì, e nel quale si racconta la storia di suo figlio, Moreno, disabile totale, e si raccolgono tutte le ipocrisie intorno al fatto che l’unico problema pubblico sia sul come chiamarlo, se “disabile”, “non abile”, “diversamente abile” o in altri modi ancora. A questo dibattito l’autore replica chiedendo di dare la possibilità a lui e suo figlio di entrare in metropolitana, “poi chiamatelo come vi pare”».

Nel caso dei rifugiati c’è la stessa distorsione?

«Certamente sì. Sono rifugiati, non sono parzialmente detenuti, ma bisogna tenere conto del fatto che a volte noi chiamiamo ospiti anche coloro che stanno nelle galere. In realtà sono persone private della libertà, mentre l’ospite propriamente detto non può essere costretto a stare in un luogo

Insomma, è una contraddizione di significato, per cui o decidiamo che la sostanza si adegua alla forma linguistica oppure cambiamo la lingua e cerchiamo di essere meno ipocriti. Nel caso dei rifugiati è vero che possono avere libertà di movimento nelle ore diurne, però devono comunicare i loro spostamenti al Prefetto e hanno ovviamente degli obblighi di dimora notturna, in quella che diventa una sorta di misura parzialmente privativa della libertà. Inoltre, quando vediamo quel che succede a Foggia e in tanti altri centri, perché ormai abbiamo visto che situazioni come queste si ripetono, e vediamo che quando stanno lì dentro vengono trattati come bestie, allora non solo si contraddice il concetto di ospite, ma ci collochiamo nell’assoluta illegalità di un trattamento che è brutale e fuori dalla logica della democrazia».

Da un lato ci dobbiamo chiedere quale sarà il destino di coloro che usciranno dal Cara di Foggia qualora dovesse essere chiuso, ma soprattutto possiamo parlare di un caso isolato o siamo di fronte a un modello?

«Vedremo, perché pare che ci sia un’inchiesta ministeriale che andrà a visitare tutti i Cara in giro per l’Italia, i luoghi in cui ci sono i rifugiati in attesa della decisione sull’asilo che dovrà prendere la commissione territoriale competente. Ricordiamo sempre che stiamo parlando di persone che hanno un potenziale diritto a rimanere in forma regolare nel nostro territorio perché nel Paese di sua provenienza rischia la vita. Questo è il principio: il diritto d’asilo è strettamente collegato al diritto all’integrità psicofisica e al diritto alla vita, e siccome non stiamo parlando di centinaia di migliaia di persone, ma di numeri molto più bassi, con dieci Cara aperti in tutta Italia e con un totale di alcune migliaia di persone che nello stesso periodo sono dentro questi luoghi, non si capisce come non si possa costruire un modello che assicuri una dignità di trattamento.

Nel comunicato stampa rilasciato ieri dalla Cild si afferma che «I luoghi dove è limitata la libertà non possono essere gestiti da privati». Che cosa significa?

Significa che è necessario aprire una riflessione sul ruolo, sul rapporto, che c’è tra il privato sociale da un lato e la delicatezza di queste questioni dall’altro. La domanda è questa: possiamo affidare a un privato la gestione di un luogo che è limitativo della libertà personale? Quali sono i limiti etici e giuridici che non devono essere superati?»

Si viene meno a uno dei monopoli che legittimano uno Stato?

«Di fatto sì. Certo, si può obiettare che l’asilante può trascorrere la giornata fuori dalla struttura, ma come dicevamo prima non è vero fino in fondo, perché comunque deve comunicare i propri spostamenti e la notte deve tornare per forza. Oltretutto questa obiezione non tiene conto del fatto che anche i Cie, i Centri di identificazione ed espulsione, sono parzialmente privatizzati, e i Cie sono luoghi dai quali non si può uscire liberamente».

Anche lì vengono chiamati ospiti.

«Già. Il punto è che lo Stato prende questa decisione, a nostro parere sbagliata, di subappaltare pezzi di gestione della detenzione amministrativa, ma la domanda che poniamo non è allo Stato, che ha preso una decisione in nome del risparmio senza nemmeno raggiungere quell’obiettivo: riteniamo che sia necessario ragionare dal punto di vista del privato sociale, del Terzo Settore. È proprio al Forum del Terzo Settore che chiediamo parole chiave sulla propria identità: è questo il suo ruolo, quello di gestire luoghi limitativi della libertà personale? Poi certo, gestirli come a Foggia è criminale, e ci auguriamo che sia un’eccezione, ma in generale può essere che un Cie o un Cara siano gestiti da un privato?»

Immagine: via flickr.com