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Falchi e colombe in Medioriente

Fonte: Voce Evangelica

Il Forum ecumenico su Palestina e Israele del Consiglio Ecumenico delle Chiese (Cec) ha invitato le chiese membro, le comunità religiose e le organizzazioni della società civile in tutto il mondo a condividere nel 2016 una settimana di sensibilizzazione e azione – dal 18 al 24 settembre – per mettere fine all’occupazione illegale della Palestina e a favore di una pace giusta per tutti in Palestina e in Israele. Il segretario generale del Cec, il pastore Olav Fykse Tveit, ha risposto ad alcune domande sul tema della pace duratura in Palestina e Israele.

Qual è il maggior contributo offerto dalle chiese nel processo di costruzione della pace in Palestina ed Israele?

«La religione può contribuire tanto a incrementare il livello del conflitto, quanto a favorire il processo di pace. Questo aspetto è particolarmente vero in quella regione. Il conflitto è legato agli stretti rapporti che intercorrono a Gerusalemme fra le tre maggiori religioni mondiali: ebraismo, cristianesimo e islam. Coinvolge anche il conflitto sulla corretta interpretazione e utilizzo dei testi sacri, quando si toccano temi come il diritto alla terra e una giusta ripartizione delle risorse naturali. Il contributo specifico delle chiese consiste nel rafforzare le iniziative di pace, insistendo costantemente che si deve attuare tanto la pace quanto la giustizia per tutta la regione».

Le chiese hanno il dovere di impegnarsi in modo particolare, in questa situazione?

«Noi constatiamo che le chiese locali sono in grado di giocare un ruolo nella promozione della pace e della giustizia. È importante perciò di sostenere la presenza cristiana nella regione, in modo che possa diventare una testimone forte della pace. Inoltre il Cec ha incoraggiato altre chiese nel mondo a considerare in modo approfondito e critico il ruolo che possono giocare per la pace e la giustizia in Israele e Palestina. È stato importante, negli anni recenti, rendere consapevoli le chiese e l’opinione pubblica di quelle che sono le conseguenze dell’occupazione dei territori palestinesi, dato che così tante persone soffrono a causa delle violazioni dei loro diritti umani, della discriminazione e degli abusi di potere. A seguito di una richiesta da parte di chiese locali, il Cec ha avviato il Programma ecumenico di accompagnamento in Palestina e Israele (Eappi), insieme a molti partner, allo scopo di monitorare la situazione e contribuire al sostegno morale e pratico di coloro che sono schiacciati da tale conflitto».

Il prossimo anno segnerà i cinquant’anni dall’inizio dell’occupazione della Cisgiordania da parte di Israele. Che cosa ci dice, questo fatto, a proposito della capacità della comunità internazionale e delle chiese mondiali di mettere fine all’occupazione?

«Sono gli stessi eventi storici, teologici e di attualità a richiamare le chiese ad un forte coinvolgimento. Israele fu riconosciuto come stato nel 1948 dalle Nazioni unite e il Cec fin da allora ha fatto lo stesso, continuando in seguito a confermare la decisione di riconoscere due stati. L’Assemblea generale del Cec ha dichiarato che l’antisemitismo è contrario alla volontà di Dio. I leader delle chiese hanno visto le enormi tragedie a cui l’antisemitismo ha portato durante la seconda guerra mondiale e hanno compreso la responsabilità e il ruolo che le chiese stesse hanno avuto per anni riguardo ai sentimenti antisemiti. Il Cec ha sostenuto le risoluzioni delle Nazioni unite che richiedono la costruzione di uno stato israeliano e palestinese e che entrambi debbano essere indipendenti e legittimati e ha criticato forme della teologia cristiana secondo cui sarebbe per volontà di Dio se alcune persone debbano lasciare le loro case e vivere sotto occupazione. Nel 2017 la comunità internazionale dovrà arrivare a riconoscere che l’occupazione è stata trasformata in una soluzione permanente e che il diritto internazionale viene quotidianamente ignorato. Sarà doloroso sottolineare questo fatto, ma questa è la realtà. Spero che ciò diventi chiaro per i politici, non solo in Israele e negli Stati Uniti che sostengono consistentemente Israele, ma anche in altri paesi. Dovremmo chiedere cosa significhi che l’occupazione non è compatibile con il diritto internazionale. L’occupazione è un disastro per i palestinesi. Ma anche una tragedia per Israele e un ostacolo al raggiungimento di una pace giusta e duratura per tutte le persone coinvolte».

Che cosa pensa della possibilità di boicottare economicamente Israele?

«Ciò va contro il diritto internazionale ed è immorale che qualcuno debba trarre profitto dall’occupazione. Il Cec ha sollevato domande per capire se le chiese che detengono fondi abbiano legami con imprese che finanziano questa occupazione, o se invece sostengano azioni per il mantenimento della pace e per la costruzione di una Palestina sostenibile dopo l’occupazione. Inoltre il Cec e molte delle sue chiese membro hanno detto ufficialmente che comprare beni prodotti nei territori occupati non è un atto morale. L’Unione europea ha imposto direttive precise sull’etichettatura dei prodotti, in modo da conoscerne con chiarezza l’origine. Penso che entrambi questi approcci siano importanti per sottolineare la condizione immorale e illegale causato dall’occupazione. Il Cec non è membro di alcuna organizzazione che promuove boicottaggi, né membro del Bds, “Boycott, Divestment, Sanctions movement”, e non ha mai promosso il boicottaggio economico dello Stato di Israele».

Su che cosa dovrebbero concentrarsi, palestinesi ed israeliani, per raggiungere la pace?

«Dobbiamo insistere sul dovere di garantire i diritti umani e sulla necessità della pace e di condizioni accettabili di vita per tutti. A volte io sono profondamente impressionato da quelle persone che non abbandonano la speranza di una pace giusta, pur dopo decenni di occupazione. Sfortunatamente il quadro è spesso guastato da aspetti negativi: la brutale realtà della terra occupata, che rovina ogni prospettiva futura. E ciò che è davvero grave per me è che la fede in Dio possa essere usata per legittimare l’ingiustizia e istituzionalizzare la violenza attraverso l’occupazione».

L’ anno scorso le autorità israeliane hanno bloccato l’entrata dei partecipanti ad una conferenza promossa dal Cec a Gerusalemme e Betlemme. Si tratta di un segnale che le chiese sono più deboli che in passato nel lavoro di costruzione della pace e della riconciliazione nella regione?

«Gli incidenti all’aeroporto di Ben Gurion mostrano che in Israele c’è particolare attenzione verso quei gruppi accusati di essere anti-israeliani. Per il Cec è importante sottolineare ciò che noi siamo: una comunità di chiese che lavorano insieme con le chiese in Palestina e Israele per una pace giusta. Non siamo anti-israeliani o antisemiti. Resta da vedere se ci sarà un cambiamento nelle attuali politiche restrittive, attuate nei confronti dei rappresentanti delle chiese e del Cec».

È ipotizzabile che possa intervenire un miglioramento improvviso nella regione, come ad esempio accadde con la caduta del Muro di Berlino?

«Tutto è possibile, perfino in Israele e Palestina. Si, forse dovremmo avere una speranza ancora più forte, che le circostanze possano cambiare e contribuire così a una pace giusta e duratura nella Terra Santa. È certamente nostro dovere di pregare e lavorare affinché ciò accada». (trad. it. Luisa Nitti)