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«Il nostro impegno con le chiese europee non si indebolirà»

La data di venerdì 4 novembre 2016 potrebbe cambiare la storia della Brexit, la procedura di uscita del Regno Unito dall’Unione europea chiesta dai sudditi di Elisabetta II con il referendum votato il 23 giugno scorso.

Sin dall’avvicendamento tra il governo Cameron, spazzato via da un risultato che non aveva previsto né desiderato, e quello guidato dall’ex Segretaria di Stato per gli affari interni Theresa May, l’esecutivo aveva sostenuto di poter attivare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che regola le procedure di uscita di un paese dall’Unione europea, in modo autonomo, sfruttando la Royal prerogative, ovvero l’insieme di poteri esercitati dal monarca del Regno Unito e che ora competono al governo.

La prima ministra britannica Theresa May aveva dichiarato di voler invocare autonomamente l’articolo 50 entro il marzo del 2017, ma qualche settimana fa l’imprenditrice britannica Gina Miller si è messa alla testa di un gruppo di imprenditrici e imprenditori facendo ricorso e sostenendo che il governo da solo non ha l’autorità per avviare il negoziato per uscire dall’Unione europea.

I giudici della High Court of Justice hanno dato ragione al ricorso, ribadendo che l’uscita dall’Unione europea avrebbe diverse ricadute anche sulle leggi interne al Regno Unito e per questo non può essere decisa soltanto dal governo, ma richiede l’approvazione del Parlamento.

Pur avendo annunciato un ricorso alla Corte Suprema, il tribunale di ultima istanza per la maggior parte dei casi giudiziari nel Regno Unito, a questo punto il governo May potrebbe essere costretto a cambiare l’approccio politico ai futuri negoziati per uscire dall’Unione Europea, e questo potrebbe allontanare la data della Brexit.

L’ex leader del partito euroscettico Ukip, Nigel Farage, uno tra i maggiori esponenti del fronte del Leave, ha parlato di «tradimento della volontà popolare», dando voce a una posizione sostenuta anche da alcuni giornali di area conservatrice.

Dall’altra parte, la parlamentare conservatrice Nicky Morgan, che aveva chiesto in passato che il Parlamento si esprimesse sull’articolo 50, ha dichiarato che «la democrazia è stata riaffermata, e mi aspetto che il Parlamento approvi l’attivazione dell’articolo 50». In effetti, è molto improbabile che il Parlamento blocchi il processo di uscita dall’Unione europea, perché, nonostante la maggioranza fosse a favore di una riforma del rapporto con Bruxelles senza una vera e propria rottura, la gran parte dei membri della Camera dei Comuni ha annunciato di voler accettare il verdetto del voto di giugno.

Tuttavia, ai parlamentari viene ora data la possibilità di affrontare la strategia del governo, di proporne una propria e addirittura di rallentare il processo di uscita.

Secondo Timothy MacQuiban, pastore della Chiesa metodista di Ponte Sant’Angelo e direttore del Methodist Ecumenical Office di Roma, «con la decisione della scorsa settimana il Regno Unito entra in un periodo di incertezza, che potrebbe addirittura dare il via a una crisi costituzionale, se la questione non dovesse essere gestita nel modo giusto».

Questa decisione potrebbe cambiare qualcosa nel processo di uscita dall’Unione europea?

«È difficile dirlo. Molte persone nel Regno Unito in questi giorni stanno parlando di una volontà popolare che è stata frustrata dai giudici, mentre altri in Parlamento affermano di essersi sentiti ignorati dal governo britannico, e stanno ribadendo la necessità, e il diritto, di avere voce in capitolo almeno sul fatto di dover mettere in atto una Brexit più “dura”, oppure più “morbida”. Insomma, gli spunti di discussione non mancano».

La chiesa metodista del Regno Unito aveva commentato l’esito del voto di giugno dicendo «non possiamo tagliarci fuori dall’Europa». Che cosa significa, in termini di missione della chiesa?

«Prima di tutto le chiese, e nello specifico la chiesa metodista, non poteva dire ai cittadini che cosa votare, ma hanno invece preso atto del fatto che sia stata compiuta una scelta forte e significativa. Tuttavia, i pericoli di questa decisione sono grandi e numerosi, e la chiesa ha l’opportunità di proporsi come una voce di riconciliazione per affrontare e opporsi a coloro che oggi nel Regno Unito portano avanti idee xenofobe e isolazioniste. Il compito della chiesa in questo momento è quello di fare in modo che si mantengano buoni rapporti con l’Europa, accettando naturalmente il fatto che possano essere ridefiniti in termini economici, politici e sociali, ma al tempo stesso facendo sentire la propria voce in merito alla mancanza di rispetto che in questo momento sembra esserci nei confronti di chi sta soltanto cercando di far applicare delle regole dettate dalla legge. In questo senso la chiesa è chiamata a difendere i cittadini, difendere i giudici e difendere chi si trova in Parlamento, in modo che tutti possano esercitare i loro diritti e doveri».

Una chiesa deve provare a comprendere il disagio delle persone anche quando si è in disaccordo?

«Diciamo subito che ci sono sicuramente persone all’interno delle chiese che hanno votato in favore dell’uscita dall’Unione europea, e noi dobbiamo riconoscerlo e accettarlo. Tuttavia credo che la chiesa abbia il compito e il dovere di opporsi alla discriminazione delle minoranze, in particolare per quanto riguarda l’accesso al lavoro e a una vita piena, e quindi credo che sia un momento importante per le chiese, che non possono rimanere in silenzio, ma devono far sentire la propria voce in difesa di coloro che intendono contrastare il crescente razzismo e vogliono invece difendere le minoranze. Ecco, credo che questo ruolo sia davvero importante in questo momento».

Lei svolge il suo lavoro pastorale a Roma, e rappresenta una realtà britannica fuori dai suoi confini. Entrando in contatto con le altre chiese europee, esiste il timore che la cooperazione con la chiesa metodista britannica possa diventare più difficile?

«Io faccio parte anche dello European Methodist Council, e nell’assemblea che si è tenuta a settembre sono stati espressi diversi timori legati alla decisione emersa dal referendum sulla Brexit. Noi dovremo garantire ai nostri partner che il nostro impegno per il lavoro congiunto, per il lavoro comune con le chiese protestanti ed evangeliche europee non si indebolisca, ma venga invece mantenuto con tutta la sua forza. Credo che da questo punto di vista il contributo dei metodisti britannici debba e possa essere grande».

Commentando l’esito del referendum del 23 giugno, la chiesa metodista britannica ha dichiarato che continua a esistere “la speranza di una società equa, giusta e paritaria”. Per la missione globale delle chiese metodiste tutto rimane come prima?

«Sì, certamente. Anzi, credo che sia ancora più importante stare accanto a coloro che sono stati toccati dalla decisione e dobbiamo pregare affinché chi deve mettere in pratica questo voto faccia prevalere il bene e l’interesse di tutti, anche di coloro che per esempio in Scozia e in Irlanda del Nord hanno detto chiaramente di voler rimanere nell’Unione europea. È importante che le voci di tutti vengano ascoltate e riconosciute, e il nostro compito è quello di stare accanto a coloro che sono più duramente colpiti e a coloro che sono le possibili vittime delle conseguenze della Brexit».

Immagine: via flickr.com