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Quando «gli stranieri» sono italiani

Mentre in Italia è ferma da un anno e mezzo in Senato la legge sullo ius soli (ne abbiamo parlato recentemente qui), la Svizzera si appresta a esprimersi su un decreto federale che dovrebbe semplificare e uniformare le procedure di ottenimento della cittadinanza per gli immigrati di terza generazione.

Il prossimo 12 febbraio gli svizzeri sono chiamati alle urne per pronunciarsi anche su altri due quesiti, sulla rete viaria e sulla tassazione sulle imprese, e sono questi ad avere avuto più spazio nell’attenzione dei media svizzeri, dati gli interessi economici in gioco. Ma anche il tema della «naturalizzazione facilitata» ha suscitato diverse reazioni, nel mondo politico e religioso.

Il decreto (che richiede tra l’altro una modifica della Costituzione federale) riguarda giovani nati in Svizzera da famiglie che qui vivono ormai da decenni, da genitori che a loro volta sono nati nel paese e qui hanno studiato, ne parlano la lingua, ne condividono i valori, essendosi ormai integrati pienamente. Se approvato, permetterà a questi ragazzi di diventare cittadini senza dovere provare la loro integrazione come se fossero appena immigrati, evitando una serie di procedure burocratiche.

Si tratta per molti del riconoscimento dei diritti di «persone che sono parte integrante del paese», come afferma, tra gli altri, l’Entraide Protestante Suisse (Eper), l’opera di assistenza della Federazione delle chiese protestanti svizzere (Feps). Tra i più decisi sostenitori di questa decisione, l’Eper sottolinea l’importanza della partecipazione alla vita politica di questi giovani, un aspetto fondamentale per la coesione sociale svizzera, come dichiara sul suo sito.

Il provvedimento riguarda circa 25.000 persone, quasi l’80% di origine europea (il 58% dall’Italia, l’8% dalla Spagna e il 9% dalla Turchia): per la maggior parte si tratta quindi di figli e nipoti di italiani immigrati nella prima metà del Novecento alla ricerca di un lavoro e di una vita migliore.

Niente a che vedere quindi con le immagini affisse nelle stazioni di «donne con il burqa, simbolo di un rifiuto di integrarsi e di un atteggiamento ostile ai nostri valori», cui fanno riferimento gli oppositori al decreto federale, osserva ancora Magaly Hanselmann nel comunicato pubblicato sul sito dell’Eper.

Questi hanno spostato ancora una volta l’attenzione sui temi dell’invasione da parte dello straniero e della paura dell’islam, riuscendo nell’intento di distoglierla dalle questioni davvero in gioco (che cosa significa essere svizzeri? ha senso che l’ottenimento della cittadinanza sia determinato dalla solerzia e la disponibilità dei singoli Comuni?), temi che invece l’Eper ha cercato di riportare al centro dell’attenzione dei propri interlocutori anche con una lettera aperta pubblicata nell’edizione di sabato dei giornali Nzz e Le Temps.

Un voto contrario significherebbe, per l’Eper, «dire no alla coesione sociale e costituirebbe un segno di sfiducia verso tutta una generazione giovane, capace e dinamica». Ma significherebbe anche negare un gesto di riconoscenza verso coloro che nei decenni passati hanno contribuito alla prosperità economica del paese.