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Come le migrazioni hanno cambiato gli strumenti di analisi

È mancato da qualche giorno Ugo Fabietti, antropologo culturale che è stato per molti un maestro. Insieme a Francesco Remotti aveva raccolto e fatto crescere un gruppo di giovani studiosi e studiose, alcuni rimasti in Università, altri invece avviati ad altre carriere, ma sempre legati da fraterna amicizia. Ugo Fabietti era stato tra i promotori del dottorato di ricerca all’Università di Torino «Teoria e pratica della ricerca» perché questa circolarità aveva certamente caratterizzato la sua ricerca sul campo, ma era anche emersa come esigenza profonda all’inizio degli anni Novanta quando una nuova generazione di studenti si affacciava, alcuni dei quali aveva anche studiato in America: era l’antropologia come critica culturale, come viene ben raccontato in un recentissimo saggio di Vincenzo Matera, Antropologia contemporanea (Laterza 2017).

Ugo Fabietti mi aveva anche seguito negli ultimi anni della ricerca di dottorato e ricordo non solo la sua apertura mentale nel leggere il lavoro dei collaboratori ma anche la curiosità verso nuovi metodi di ricerca, come l’etnografia multi-sito che, a causa dei movimenti migratori oggetto della mia ricerca, ero stata invitata a esplorare, tra le prime in Italia. Fino a poco tempo prima infatti le ricerche erano state incentrate sui migranti (spesso «catene» di uomini soli) oppure sulle comunità immigrate (quando, in seguito al ricongiungimento familiare, in alcune città si erano costituite alcune comunità etniche).

All’inizio degli anni Novanta però il paradigma stava cambiando, perché ci si rendeva conto di un fatto complesso: non solo le comunità etniche erano differenziate al loro interno e non tutti i membri riconoscevano automaticamente l’appartenenza culturale o religiosa minoritaria come un fattore determinante della propria identità, ma era proprio il concetto stesso di identità – e dunque di identità etnica e culturale – che andava trasformandosi, offrendo più domande che risposte, fino a contestare apertamente questo concetto.

Per documentare questi itinerari, era stato necessario modificare gli strumenti di analisi e dunque anche l’etnografia ne era risultata trasformata con difficili trasferte nei luoghi di origine dei migranti, interviste in profondità nelle città italiane luoghi della diaspora, ma anche collegamenti transnazionali tra le famiglie migranti di prima o seconda generazione, sparse per il mondo.

Oggi questi temi sembrano quasi scontati, eppure sono innovativi data la regressione del dibattito generale sulle migrazioni, come si percepisce leggendo ad esempio il bel romanzo di Mohsin Hamid Exit West (Einaudi 2017) o il saggio di Kwame Anthony Appiah Cosmopolitismo (Laterza 2007), scritto da un filosofo figlio di un pastore metodista del Ghana, testo rivelatorio di come si possano trovare punti di accordo nella conversazione tra diversi.

Allora invece un approccio transnazionale alle migrazioni era pionieristico, e Ugo Fabietti aveva saputo sostenere e incoraggiare i tentativi precoci e innovativi dei suoi collaboratori. Eravamo cresciuti scrivendo le voci del Dizionario di Antropologia di Zanichelli, ma è stata anche la sua scrittura di libri e di manuali che ha saputo mantenere i collegamenti tra di noi: ogni manuale di antropologia, seppur fosse sempre la stessa storia, presentava però angolature differenti per rileggere e amare questa disciplina difficile e straordinaria. E questo è forse il dono più grande che un maestro può trasmettere ad allievi e allieve.

Immagine: Di Frank Leslie’s illustrated newspaper, , pp. 324-325. – http://lcweb2.loc.gov/cgi-bin/query/D?ils:14:./temp/~pp_UbCa::, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5108973