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Un melo da piantare, gesto profetico quando il mondo ribolle

«Il futuro è nelle mani di Dio – bisogna ricordarlo sempre – ma Dio ci ha chiamati a essere suoi testimoni e collaboratori “stimandoci degni della sua fiducia” (I Timoteo 1, 12)». L’invito espresso del moderatore della Tavola valdese Eugenio Bernardini, al termine della sessione sinodale conclusasi venerdì 25 agosto a Torre Pellice, riassume le percezioni che caratterizzavano la vigilia del Sinodo stesso e che circolano da alcuni anni, alle quali occorre far fronte evitando a un tempo il vittimismo e lo scarico di responsabilità.

Che le chiese del protestantesimo storico siano in difficoltà nel valorizzare convintamente il proprio messaggio non è una novità; che le ansietà prodotte da una società sempre più precaria permeino anche le comunità cristiane è altrettanto vero: ma il senso di fiducia che, nonostante tutto, occorre mantenere è anch’esso una realtà, poiché viene da Dio. Con questa certezza è giusto, archiviati i lavori sinodali, ripartire cercando nuovo slancio nelle sfide, sempre nuove e a volte più gravose, che vengono rivolte alla chiesa.

Alcune di queste sfide erano note alla vigilia: il dramma di profughi e migranti, le attese di una società smarrita, in evoluzione continua (tra nuovi assetti della famiglia e questione del fine-vita); una società che è anche prigioniera delle proprie angosce, tra marginalità sociale, situazione carceraria e terrorismo. A queste ansie poi si accompagnano quelle interne alla chiesa, come la difficoltà nel capirsi e gestire i conflitti: a tutto questo valdesi e metodisti reagiscono con gli strumenti che contraddistinguono la loro storia, a partire dal confronto assembleare. A volte il dibattito delude le aspettative di alcuni, come nel caso della mancata approvazione di un ordine del giorno sulla questione dell’ergastolo ostativo: ma questa è una ulteriore dimostrazione che l’Aula sinodale non è collocata in un altro pianeta rispetto a quello dei nostri concittadini e concittadine, ed è permeabile alle ansie e paure di cui sopra.

In questa atmosfera, tuttavia, dei punti fermi sono di aiuto alla piccola realtà dei valdesi e metodisti italiani. «Siamo abituati a dire che “noi facciamo le cose insieme” – ha detto Bernardini dopo la conclusione della tornata di elezioni di tutti gli organi di indirizzo e di controllo (le Commissioni d’esame) della chiesa –. Lo sviluppo della nostra teologia e liturgia, le linee etiche da condividere, la responsabilità sociale e politica, la distribuzione delle risorse che raccogliamo tramite le donazioni, tutto viene deciso in modo collegiale». Quindi «la nostra chiesa», come aveva già ripetutamente detto nel corso del Sinodo, è una chiesa ordinata, non disordinata, è strutturata nella linea caratteristica delle chiese nate dalla Riforma.

E certo, in questo anno di manifestazioni e iniziative a ricordo dei 500 anni della Riforma, «non soltanto si è parlato tanto della Riforma ma se ne è parlato meglio, non addebitandole più tutti i mali della società moderna – l’inizio della fine del regime di cristianità, la causa dei mali della secolarizzazione, la culla dell’individualismo e del relativismo etico… – ma dando spazio anche a nuove e più positive interpretazioni».

Ecumenismo (nel lavoro sociale ma anche nello studio della storia della Riforma) e apertura all’interculturalità (non solo nelle grandi assise ecclesiastiche, ma all’interno delle singole comunità) hanno caratterizzato una parte del discorso finale. Quello che valdesi e metodisti avranno di fronte alla vigilia di un nuovo anno è «un orizzonte difficile che continuerà a richiedere un intervento impegnativo per recare soccorso, sollievo, cura, e insieme ricerca di equità e giustizia. Un impegno che continuerà a vedere in prima linea la nostra diaconia ma anche le chiese, soprattutto per contrastare le tensioni e le conflittualità sociali e – come ha dichiarato questo Sinodo – per contrastare l’odio a cui il terrorismo da una parte e l’estremismo ideologico dall’altra ci vorrebbero spingere». Per lo scopo a cui Dio ci chiama, e che a volte può spaventarci, pochi versetti prima leggiamo, nello stesso capitolo della I Timoteo, che egli «ci ha dato uno spirito non di timidezza, ma di forza, d’amore e di autocontrollo». «Ricordiamo che a Lutero viene attribuita un’immagine divenuta famosa – ha concluso il moderatore –  “Anche se sapessi che domani il mondo finisse, pianterei lo stesso nel mio giardino un albero di mele”. Che senso ha piantare un melo quando il mondo ribolle? Ha senso, perché anche un piccolo e semplice gesto simbolico può diventare profetico e mobilitare energie impensabili».