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L’uso ideologico della frontiera

Domani 30 settembre si apre a Palermo il Convegno “Vivere e testimoniare la frontiera”, promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) e da Mediterranean Hope – Programma rifugiati e migranti (MH), in collaborazione con il Centro Diaconale del capoluogo siciliano “La Noce”. Attesi, in qualità di ospiti o di relatori, oltre cento partecipanti, in prevalenza provenienti da chiese protestanti dell’Europa e degli Stati Uniti. Oltre a varie organizzazioni ecumeniche quali il Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), la Comunione mondiale delle chiese riformate (CMCR), la Conferenza delle chiese europee (KEK), la Commissione delle chiese per i migranti in Europa (CCME), sarà presente una qualificata delegazione cattolica che comprende il cardinale Francesco Montenegro, presidente della Caritas; l’arcivescovo di Palermo, mons. Corrado Lorefice; Cesare Zucconi, segretario generale della Comunità di Sant’Egidio. I lavori del Convegno si concluderanno il 3 ottobre a Lampedusa dove, anche quest’anno, avrà luogo una commemorazione ecumenica delle 368 vittime della strage di migranti del 2013.

A pochi giorni dall’avvio di questo evento, l’agenzia NEV ha intervistato Paolo Naso, coordinatore del programma Mediterranean Hope.

Professor Naso, perché un altro convegno sulle migrazioni globali?

Potrei dire perché non se ne parla mai abbastanza e perché se ne parla male. Ancora fatichiamo a capire la novità di queste migrazioni che poco o nulla hanno a che fare con quelle tradizionali che l’Italia ha sperimentato dalla metà degli anni ’70 e l’Europa quindici anni prima. Allora si partiva per cercare un lavoro, accumulare un capitale, migliorare la propria vita. Oggi si scappa da guerre e conflitti etnici, da persecuzioni e torture; non si scappa semplicemente da paesi poveri, ma da paesi sprofondati in scontri anarchici tra bande rivali e da nazioni “collassate” in cui non esiste più un governo centrale. Insomma non si emigra, si fugge. Forse più di altri, noi italiani siamo testimoni di questa realtà che vogliamo condividere con i nostri partner europei. In questi anni siamo stati presenti al molo di Lampedusa dove abbiamo assistito allo sbarco di migliaia di persone, accogliendole con una bevanda calda e un sorriso; abbiamo ospitato centinaia di donne e giovani migranti nella nostra “Casa delle Culture” a Scicli; grazie ai corridoi umanitari abbiamo offerto un passaggio sicuro e legale a persone che hanno tutti i titoli per ottenere la protezione internazionale. Nel convegno vogliamo raccontare queste esperienze e condividerle con chi, in Europa e negli Stati Uniti, sta conducendo una battaglia morale e civile per i diritti umani.

Perché un convegno ecumenico e internazionale?

Perché il tema è ecumenico e internazionale. La collaborazione nell’accoglienza e per i diritti dei migranti è uno degli aspetti più vitali di questa fase ecumenica e le chiese si stanno distinguendo per l’incisività del loro impegno. Da qui anche l’internazionalità del convegno: per rafforzare le reti europee e globali, per cercare consenso attorno a proposte condivise come quella, ad esempio, dei corridoi umanitari che noi italiani abbiamo lanciato per primi. La risposta delle chiese sorelle e dei vari organismi ecumenici internazionali è stata molto positiva. Alcuni di essi già sostenevano con generosità il programma MH. Ma a questa solidarietà economica ora si aggiunge l’interesse al confronto con l’esperienza italiana. In un’Europa che su questo tema si è mostrata sorda e cieca, è un segnale di primaria importanza: la voce delle chiese può e deve trovare maggiore ascolto nel dibattito pubblico dell’Europa e delle sue istituzioni.

Vivere e testimoniare la frontiera. Perché questo titolo?

Perché vogliamo denunciare l’uso ideologico che si fa della “frontiera”, quasi che milioni di migranti premessero su una immaginaria linea del Piave, rotta la quale l’Italia e l’Europa sarebbero invase. Non è così. La frontiera ce la stiamo costruendo nella nostra testa, come simbolo delle nostre paure e dei nostri egoismi che non ci fanno vedere oltre l’uscio dei nostri problemi e dei nostri interessi. E cerchiamo di allontanarla sempre più dai nostri confini naturali, spostandola sempre più a sud o a est.

Anche per questo nel 2013 la Federazione delle chiese evangeliche ha lanciato il programma Mediterranean Hope e ha deciso di aprire due “postazioni” immediatamente esposte all’arrivo dei migranti: Lampedusa e Scicli, a pochi chilometri dall’hotspot di Pozzallo. Come cristiani ci è parso doveroso testimoniare la nostra fede nel luogo fisico e simbolico della sofferenza ma anche della speranza, là dove i migranti sopravvissuti alle torture, alla violenza dei trafficanti e alle insidie del mare chiudono un capitolo della loro vita e sperano di aprirne un altro.

Siete già in grado di fare un bilancio di questo lavoro?

Lo facciamo ogni giorno, e ogni giorno ci chiediamo se quello che stiamo facendo come Federazione o come Mediterranean Hope ha un senso. Viviamo riconoscendo a “ciascun giorno il suo affanno” perché abbiamo imparato come le dinamiche migratorie siano sempre più fluide e mutevoli. Chi avrebbe detto, anni fa, che i migranti minorenni non accompagnati in arrivo in Italia sarebbero saliti ad oltre il 10%? Chi avrebbe detto che, chiusa la rotta balcanica e quella dal Marocco verso la Spagna, l’Italia sarebbe divenuto l’unico hub per centinaia di migliaia di migranti? Ma voglio vedere le cose anche in positivo: quando nel 2014, insieme alla Comunità di Sant’Egidio, lanciammo la proposta dei “corridoi umanitari” ricevemmo l’impressione di esserci schiantati contro il muro di un rifiuto senza appello. Oggi la politica dei “corridoi umanitari” è stata adottata oltre che in Italia anche in Francia, se ne parla in Svizzera e molto concretamente in Germania; incontra un crescente consenso nel Parlamento europeo. Insomma dobbiamo essere sempre pronti ad aggiornare le nostre strategie e i nostri obiettivi e a lasciarci sorprendere da qualche buona notizia.

Non sono molte le buone notizie, quando si parla di diritti dei migranti.

No, sono poche e in certi giorni non ce n’è nessuna. Ma come cristiani abbiamo la fortuna di non dover far corrispondere la nostra azione ai sondaggi o agli orientamenti dell’opinione pubblica. Come diceva Martin Luther King, certe cose non vanno fatte perché sono popolari, perché producono consenso o perché gratificano le nostre ambizioni. Per i cristiani, certe cose vanno fatte semplicemente perché sono giuste.

Sarà possibile seguire i lavori della Conferenza tramite i social e in diretta su Radio Beckwith Evangelica.

Immagine: via Flickr