stre

Strehler a Milano

Il Natale del 2017 sancirà i vent’anni dalla scomparsa di Giorgio Strehler, attore e regista teatrale tra i più apprezzati e conosciuti a livello nazionale ed europeo. In particolare due città sono al centro delle celebrazioni Trieste, sua città natale, e Milano, città che l’ha adottato e a cui sarà legato anche professionalmente; non a caso, per le due celebri canzoni che ha scritto in collaborazione con altri musicisti e artisti, inserite tra le canzoni della mala, sceglierà il dialetto milanese. Brani, in particolare Ma mi…, che con l’interpretazione di Milva, Ornella Vanoni e Enzo Jannacci, sono diventate parte del repertorio comune. I temi che Strehler ha affrontato, sia con la musica che, maggiormente, col teatro, interessano il vivere umano come incontro, l’impegno sociale e civile, e hanno formato una generazione di attori che vi si riferiscono come a un periodo di grande crescita professionale e personale.
Tra i numerosi incontri dedicati alla figura del regista, alla sala delle cariatidi di Palazzo reale, a Milano, è allestita la mostra Strehler fra Goldoni e Mozart, curata da Lorenzo Arruga, giornalista e critico musicale, che fu anche collaboratore di Strehler.

Con questa mostra come avete pensato di rendere omaggio a questo artista?
«Omaggio è la parola giusta: Strehler è ancora nel pensiero e nei cuori di tutti. Ci sono tante mostre e spettacoli in giro che lo ricordano e lo onorano, ma questa non è una di quelle; la nostra è una mostra laboratorio in cui presentiamo una serie di lavori che abbiamo cominciato, che continueranno e che, speriamo, siano di stimolo perché anche altri vi si dedichino.
Il percorso è dedicato al periodo milanese ed è incentrato su Goldoni e Mozart, due autori del ’700 che Strehler sentiva come suoi fratelli, grazie ai quali ha potuto esprimere il suo pensiero: la socialità insieme alla razionalità, la bellezza specifica del secolo, la vicinanza e il distacco fuor di polemica che può dare l’aver scelto un secolo che non è il nostro e ormai è lontano.
Sono presi in considerazione sette capolavori, di Goldoni c’è Il favoloso Arlecchino, che è lo spettacolo in tournée in Italia da più tempo, circa 70 anni, il Campiello e Le baruffe chiozzotte, di Mozart Il ratto del serraglio, Le nozze di Figaro, il Don Giovanni e Così fan tutte».

Qual è la grandezza di Strehler, la caratteristica che lo rende attuale ancora oggi?
«L’Italia è fatta di oblio, di finto futuro e di presente fuggevole. Siamo immobili tra le cose, immagini, parole che passano e che il giorno dopo abbiamo già dimenticato. I bambini trovano che i primi cartoni animati di Walt Disney sono monotoni e non succede niente. Noi cerchiamo di rifocalizzare l’attenzione; è una mostra laboratorio proprio perché ha un aspetto critico. Vogliamo affascinare con i segni, con alcuni indizi dati dai costumi di scena, pezzi di scenografia, fotografie, dalla documentazione filmata degli spettacoli e da un testo che corre fra le varie parti. Mettiamo tutti in condizione di girare come vogliono nello spazio, in questo ‘700 ferito dalla guerra ma, forse proprio per questo, ancora più affascinante, senza però sentirsi distaccati dal proprio mondo attuale. Cerchiamo di fare delle proposte per chi ha voglia di pensarci su, per chi non pensa che non ci sia nulla da fare, proposte che centrino con la vita di chi è li, che guarda e gira e non ha bisogno di sentirsi dire cosa pensare o in che direzione andare. Il percorso è libero ma tocca i punti che a Strehler stavano più a cuore, quelli essenziali della storia»

Nel teatro c’è spazio anche per chi non ha così tanta disponibilità a farsi coinvolgere?
«Ce n’è tantissimo. Quando la gente va a teatro, in quelli piccoli come in quelli più grandi nonostante si sia perso un po’ di professionismo, è disposta a capire, a lasciarsi coinvolgere, a chiedersi che risposta dare a tutto questo. Che è la grande domanda che Strehler sperava di avere dal pubblico».

Cosa si porta ancora dietro dell’esperienza con Strehler?
«Il modo in cui tutto diventava teatro, tutto prendeva vita. Il modo in cui la risposta ad ogni domanda portava ad altre domande, la sua teatralità e la grandezza umana e, devo aggiungere, anche la grandissima tenerezza. Lui era della convinzione che in tutto, anche nel sociale, se si perde la tenerezza non conta più niente».