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Iran, finiscono le proteste ma non le ingiustizie

Le proteste scoppiate in Iran alla fine di dicembre riguardano il tema della libertà declinato in molte forme differenti. Schiacciate tra le istanze di miglioramento economico e il desiderio di un cambio di regime, le esigenze di rispetto dei diritti delle minoranze etniche e religiose sono passate in secondo piano, ma non vanno sottovalutate.

Finora alle proteste hanno partecipato soprattutto le fasce più basse della popolazione, giovani senza accesso all’istruzione universitaria e disoccupati. Osservando la composizione della piazza, emerge quindi la natura economica e puntuale, più che politica e strutturale, dell’inizio delle proteste. Inoltre, la capitale Teheran è stata toccata soltanto in modo marginale, anche se ospita tutti i principali centri di potere. Si tratta di una differenza evidente rispetto al 2009, quando centinaia di migliaia di persone scesero in strada nella capitale per protestare contro la rielezione dell’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad, spinte e organizzate soprattutto dai riformisti, che chiedono di ripensare il sistema attuale senza però rovesciare l’autorità degli ayatollah. Se questa differenza da un lato fa pensare che le manifestazioni possano essere più spontanee e siano l’inizio di un discorso più ampio, destinato a perdurare, l’assenza di un’organizzazione o di un partito politico alle spalle può essere un elemento di debolezza nel breve periodo.

Dopo i messaggi concilianti che il 31 dicembre erano stati lanciati dal presidente Hassan Rouhani, è stato facile per la Guida suprema Ali Khamenei dare il via alla repressione, tanto in rete quanto per le strade.

È facile pensare che il controllo sui social network abbia giocato un ruolo importante. Attraverso l’analisi di video e fotografie in rete, insieme al blocco dei sistemi di comunicazione utilizzati per alimentare le proteste, ovvero in particolare Instagram e Telegram, il regime ha individuato gli attivisti maggiormente impegnati nelle manifestazioni e ha arrestato più di 1000 persone, oltre ad averne uccise almeno 21, secondo uno degli ultimi incerti bilanci. Fra loro ci sono anche 90 studenti, che sembrerebbero essere stati fermati a titolo preventivo.

Domenica 7 gennaio i Guardiani della rivoluzione hanno annunciato che le forze di sicurezza hanno messo fine alle proteste, sancendo quindi l’ingresso in una nuova fase politica. Rimane però molto difficile credere che con la fine delle proteste in strada il malcontento scompaia, perché cova da decenni sotto la coltre di tranquillità e l’immagine di stabilità che il Paese è riuscito a costruire verso l’esterno.

In particolare, quasi tutti i livelli politici e amministrativi iraniani rimangono fortemente corrotti, i vantaggi economici dell’accordo sul nucleare scarsi e gli spazi per l’espressione politica e religiosa stretti, in un meccanismo che alimenta rabbia e frustrazione, oltre al timore di una nuova stagione di repressioni ancora più marcate, giustificabili oggi proprio con le proteste, che i pasdaran hanno attribuito prima ad “agenti stranieri” e poi all’ex presidente Ahmadinejad. A farne le spese, ancora una volta, le fasce più deboli della popolazione. Tra le minoranze su cui si concentrano le maggiori preoccupazioni ci sono soprattutto i Baha’i, seguaci di una religione nata proprio in Iran a metà del XIX secolo e che conta circa 7 milioni di membri a livello globale. Le violenze continuano nella più totale impunità, mentre almeno 90 membri di questa comunità religiosa, secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, sono in prigione. In particolare, 24 persone sono state arrestate e recluse in modo arbitrario, in violazione del loro diritto alla libertà di culto. Allo stesso modo, anche per gli appartenenti ad altre minoranze etniche e religiose sono frequenti le espulsioni dalle università e in generale esiste un forte filtro all’accesso all’istruzione di alto livello. Non sono rari neppure gli attacchi ai loro luoghi di culto, la distruzione dei cimiteri di comunità e l’arresto e la tortura dei loro leader. Durante la campagna elettorale dello scorso anno, il presidente Rouhani aveva promesso «pari diritti per tutti gli iraniani», affermando che «il nostro percorso è quello verso la coesistenza pacifica con tutte le etnie del Paese». La difficoltà di accedere, per motivi etnici, a ruoli di vertice, ci dice che questo risultato oggi è davvero lontano.