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L’Italia guarda sempre più verso l’Africa

Mercoledì 17 gennaio la Camera ha approvato in via definitiva il la lista delle missioni militari italiane che saranno attive nel 2018. Il decreto del Consiglio dei ministri, che era già stato licenziato dal Senato, prevede il rinnovo di tutte le missioni già attive nel 2017 e l’avvio di nuove operazioni, tra cui spicca quella in Niger. Nessuna sorpresa, quindi, rispetto al passato, ma un’attenzione da parte della nostra politica estera di difesa che si sposta sempre di più verso l’Africa, e in particolare verso la regione del Sahara.

Con questo decreto si prevede infatti una riduzione dell’impegno militare in Medio oriente e in Asia centrale, in particolare in Iraq e in Afghanistan, con il quale si intende bilanciare la nuova politica senza incrementare la presenza militare all’estero e limitando l’aumento delle spese. Già così, comunque, ci sono coperture soltanto fino al 30 settembre, poi sarà necessario un successivo aggiustamento di bilancio, che a questo punto spetterà al nuovo Parlamento e al nuovo governo, che si dovranno insediare dopo le elezioni politiche del 4 marzo. «L’immagine che ritorna leggendo il decreto – spiega il giornalista Christian Elia, direttore di Qcode Mag e autore del webdoc Storia di una pallottola in collaborazione con Emergency – è quella di una sorta di Risiko dell’impotenza».

La missione in Niger, che ha un mandato “no combat” ed è dichiaratamente mirato al controllo del territorio e alla formazione delle forze locali, è la novità più rilevante, ma anche quella dai contorni più indefiniti. Nel Paese africano verranno inviati inizialmente 120 militari, poi la presenza crescerà durante il 2018 fino a 470 effettivi, che hanno principalmente due obiettivi: il contrasto al traffico e ai trafficanti di esseri umani in un Paese di forte transito e il contrasto alle organizzazioni terroristiche, in particolare jihadiste, che operano nella zona. «Abbiamo davvero poche informazioni – spiega Giacomo Zandonini, giornalista che ha vissuto in Niger durante il 2017 – ma gli scenari che si ipotizzano sono due: sicuramente ci sarà una base nella periferia della capitale, Niamey, vicino all’aeroporto internazionale, dove già esistono una base tedesca e una francese nella zona, poi una probabile dislocazione di una parte di questo contingente nel nord del Niger. In particolare si è parlato di Madama, questa base militare oggi francese e nigerina a circa 100km dalla frontiera con la Libia, una zona completamente diversa in mezzo al Sahara, lungo la pista principale che collega il Niger alla Libia». Qui il mandato non sarà tanto rivolto alla formazione e all’addestramento, quanto al pattugliamento e alla raccolta di informazioni in una zona molto poco controllata.
«È un’area poco controllata – prosegue Zandonini – perché poco abitata, in un Paese in cui c’è uno sviluppo ancora abbastanza limitato delle forze di sicurezza. La zona del nord del Niger è grande quasi quanto la Francia, ma è abitata solo da 500.000 persone ed evidentemente il controllo esteso del territorio non è una priorità del governo nigerino. Anche attraverso l’utilizzo dei droni e di informazioni satellitari ci sono possibilità di un controllo di un certo tipo, ma sempre limitate». Anche se è stata recentemente autorizzata dal governo di Niamey la possibilità di utilizzare droni armati per un controllo dall’alto, che verranno forniti principalmente da Francia e Stati Uniti, il pattugliamento rimane parziale. Proprio per questo la missione italiana lavorerà a terra, in uno spazio in cui le condizioni del deserto sono fortemente variabili. «Gli stessi militari nigerini e francesi che da alcuni anni operano a Madama – ricorda Giacomo Zandonini – hanno fatto in questi anni dei pattugliamenti piuttosto limitati anche appoggiandosi come guide a dei locali, a delle milizie che controllano il confine con la Libia. Bisogna dire che di lì passa anche un traffico internazionale, soprattutto di droga ma anche di altre merci, che usa alcune piste, magari non quelle principali, e si tratta spesso di piccoli convogli che hanno una dotazione non di tipo militare ma comunque di armi per proteggere questi carichi di grandissimo valore».

Una missione dagli esiti incerti, quella in Niger, che va a incidere parzialmente anche sull’impegno italiano nello scenario di guerra nel quale i nostri militari sono impegnati da più tempo, l’Afghanistan. Qui il contingente italiano passerà da 900 a 700 effettivi, segnando forse una nuova fase in Asia centrale, in un Paese in cui il conflitto non dà alcun segno di volgere al termine. «Non solo non si sta concludendo – ammonisce Christian Elia – ma la guerra in Afghanistan ha un’intensità crescente. Si può continuare, se vogliamo, a parlare di sacche fuori controllo, ma la dinamica è inversa: oggi il numero di province in cui si combatte è aumentato rispetto all’anno scorso, rispetto all’anno prima e rispetto all’anno prima ancora. Il numero degli attacchi violenti, così come quello degli attentati, è in costante aumento».

Quella afghana è la storia di un fallimento che la riduzione di militari non può in questo momento cancellare. «Il problema – continua Elia – è capire quale sia la nostra strategia in Afghanistan e capire quale sia l’orizzonte di oggi. Nei primi anni di questa guerra si parlava di una società democratica, di un rafforzamento di un esercito e una polizia locale che avrebbero badato a loro stessi, insieme all’implementazione dei processi democratici di un governo. Ecco, tutto questo non è accaduto, e noi con questo approccio possiamo stare in Afghanistan altri 15 anni, ma non stiamo mettendo in pratica nessun processo, stiamo semplicemente vivendo alla giornata. Ogni contingente militare è nella sua “Fortezza Bastiani” sparsa per il Paese, mentre i poliziotti e i militari afghani giocano il ruolo della carne da macello. Basta pensare che oggi il traffico di oppio dà lavoro a 400.000 persone in Afghanistan, esattamente il doppio delle forze armate. Di fronte a questa lacerazione sociale, non si può fare altro che constatare che non si è lavorato a nulla su quelli che sono i veri fattori democratici, cioè il lavoro, l’istruzione e la sanità».

Nonostante questo, nel frattempo l’Afghanistan è diventato, almeno per l’Unione europea, un Paese sicuro, nel quale rimpatriare i richiedenti asilo. Nel 2016, infatti, il governo di Kabul ha sottoscritto il Joint Way Forward, un accordo tra l’Ue e il governo afghano che vincola l’erogazione degli aiuti umani all’accettazione di un rimpatrio di una cifra stimata di 80.000 persona. Secondo Christian Elia «la logica è surreale: se io sono lì con una presenza militare vuol dire che il Paese è pacificato e quindi posso rimpatriare gli afghani verso l’Afghanistan».

Allo stesso modo, la strategia italiana in Niger, che è in gran parte focalizzata sulla rotta migratoria, impone una serie di domande. «Fino a oggi l’effetto dell’aumento dei controlli in Niger – conclude Giacomo Zandonini – è quello di una moltiplicazione delle rotte, con l’apertura di nuove strade lungo il Sahara. Il problema è che questo segna anche un aumento dei rischi e dei morti: un autista che si trova di fronte a una pattuglia militare lungo la sua strada può abbandonare i migranti e cambiare strada, tornando indietro per evitare di essere arrestato. Inoltre non è detto che i militari intercettino realmente i migranti, perché il deserto cambia in modo molto rapido e la visibilità spesso non è così buona».
L’alternativa tra non fare nulla per contrastare fenomeni di illegalità e intervenire con queste missioni rimane sul tavolo, ma a oggi nessuno ha ancora trovato una risposta all’enigma.