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Cosa cambia con la nuova missione di Frontex?

Il 1 febbraio 2018 l’agenzia dell’Unione europea che si occupa del controllo delle frontiere esterne, Frontex, ha dato il via alla nuova missione navale europea, Themis, che sostituirà Triton, avviata nel 2014 e ritenuta non più adatta alle necessità attuali.

Secondo i comunicati stampa citati da molti giornali, la principale novità di Themis è costituita dalla regionalizzazione del Mediterraneo, ovvero dal principio per cui le navi della missione europea non saranno più obbligate a far sbarcare in migranti salvati in Italia, come invece fatto da Triton. Tuttavia, secondo l’avvocato Gianfranco Schiavone, presidente di ICS – Consorzio Italiano di Solidarietà – Ufficio Rifugiati Onlus, e Vice Presidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione, non c’è nessuna certezza su questo cambiamento. «Bisognerebbe poter leggere il testo di questa nuova operazione – spiega – ma il primo problema che abbiamo è che siamo pieni di dichiarazioni stampa e di commenti, ma non abbiamo un testo da commentare o da analizzare. C’è qualcosa che non va in questa nuova missione rispetto alla conformità con le normative internazionali e come spesso è già avvenuto in altre circostanze ci si affida al passaparola o alle dichiarazioni stampa senza però poter passare all’analisi del contenuto. Credo che quantomeno il Parlamento europeo debba intervenire per capire bene di cosa stiamo parlando».
Inoltre, la missione Triton, sostituita ora da Themis, ha soccorso – o contribuito a soccorrere – soltanto una piccola parte delle persone arrivate via mare, ovvero circa 38.000 sulle 186.000 del 2017, e anche rimuovendo il vincolo dello sbarco in Italia la questione pratica non viene modificata. «Siamo sempre lì», spiega Schiavone. «I comunicati di Frontex che vengono citati dai giornali parlano di “porto più vicino”, ma in realtà il diritto internazionale del mare sugli obblighi di soccorso impone che il salvataggio avvenga nel primo porto sicuro. La distanza è un elemento fondamentale, ma per “porto sicuro” si intende un luogo non solo ragionevolmente vicino, ma anche un porto nel quale è possibile garantire una sicurezza materiale e giuridica alle persone, quindi una protezione dai rischi di respingimento verso luoghi pericolosi».

La Convenzione di Amburgo del 1979, così come altre norme successive sul soccorso marittimo, sono piuttosto chiare in questo senso e confermano la definizione di “porto sicuro”. L’Italia è il Paese più vicino dal punto di vista geografico ed è l’unico, oltre alla Grecia, che però è molto più lontana, a essere attrezzato per gestire sbarchi del genere.
Nel primo comunicato stampa di Frontex, pubblicato il 31 gennaio e poi modificato, compariva tra le nuove possibili destinazioni degli sbarchi anche la Libia, con cui l’Italia ha stipulato accordi un anno fa, ma è stata rapidamente rimossa. In effetti, la Libia non ha un’area Sar (acronimo di Search and Rescue, “ricerca e soccorso”) definita secondo i canoni della Convenzione di Amburgo, perché non rispetta le condizioni minime necessarie. Inoltre sembra difficile ritenere i porti libici come “sicuri”. «In realtà sono problematici – avverte Schiavone – anche i tentativi di affidare un numero maggiore di soccorsi a Malta e Tunisia, configurando un tentativo di ritiro dell’Italia dal campo delle operazioni».
La Tunisia ha una situazione molto differente rispetto a quella libica: innanzitutto non è in corso una guerra civile, e in seconda battuta Tunisi ha definito negli anni la propria area Sar ottenendone il riconoscimento internazionale. Tuttavia, secondo Gianfranco Schiavone «bisogna tenere conto che delle condizioni effettive del Paese, della sua reale possibilità di fornire accoglienza materiale e una reale protezione. Questo è abbastanza discutibile, e salvo che queste operazioni non siano molto limitate si pone un problema di effettività e di efficacia e di opportunità». Inoltre, negli ultimi mesi la Tunisia ha ricominciato a essere un luogo di partenza delle migrazioni lungo la rotta del Mediterraneo centrale, creando quindi un cortocircuito tra chi lascia il Paese e chi vi viene sbarcato, magari provenendo da luoghi molto differenti».
A essere maggiormente toccata dalla nuova missione di ricerca e salvataggio potrebbe essere Malta, ma anche qui i problemi non mancano. «A dire il vero – ricorda Schiavone – Malta è da sempre un grande problema, perché l’area Sar maltese è teoricamente molto vasta e molte delle operazioni ricadrebbero su Malta». Da un lato, l’isola del Mediterraneo ha da sempre un atteggiamento poco favorevole sulla questione migratoria, ma dall’altro i problemi sono molto concreti: «c’è una sproporzione tra l’area di soccorso e la grandezza di questo minuscolo Stato che sicuramente non può farsi carico dell’asilo di migliaia e migliaia di persone. Questa è la ragione per cui negli anni scorsi l’area Sar maltese era stata di fatto bypassata dalla competenza italiana».
Restringendo ancora il cerchio, gli unici Paesi che per dimensione, posizione ed economia potrebbero permettere gli sbarchi rimangono, oltre all’Italia, la Spagna e la Grecia. Tuttavia, per motivi diversi, la rotta del Mediterraneo centrale non può essere di competenza di Atene e Madrid: l’area Sar della Grecia confina con la Turchia, quindi decisamente più a est, mentre quella spagnola è molto più a ovest, sulla tratta che dal Marocco porta verso l’Europa. «A questo – spiega poi l’avvocato Schiavone – si deve aggiungere una grande confusione concettuale, cioè si pensa che un salvataggio fatto da una nave battente bandiera di un determinato Paese dell’Unione europea radichi poi la la competenza nel Paese di bandiera, e radichi lì anche la domanda d’asilo. Tuttavia, questa è un’interpretazione erronea del Regolamento di Dublino, perché è competente il Paese che coordina le operazioni di soccorso, dove le persone devono appunto sbarcare appunto il prima possibile».
Il regolamento di Dublino, infatti, resta sullo sfondo delle numerose domande che Themis fa emergere, non ultima quella sull’utilità di una missione che in pratica modifica davvero poco, rimane una grande questione, quella relativa al “dopo”. «Le persone – conclude Schiavone – non dovrebbero restare solo nel primo Paese in cui viene effettuato il soccorso, ma su questo bisogna guardare alla riforma di Dublino, che è assolutamente necessaria».