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La ricerca della verità

È ancora dolorante (con 25 giorni di prognosi) Maria Grazia Mazzola, l’inviata speciale del Tg1 che il 9 febbraio, mentre svolgeva a Bari un’inchiesta sulle baby gang e la criminalità in Puglia, è stata vittima di un’aggressione violenta: la moglie del boss Lorenzo Caldarola le ha dato un cazzotto sulla guancia sinistra perché infastidita dalle domande che la giornalista le stava rivolgendo. Di madre protestante, Mazzola si è convertita a vent’anni dopo un percorso di ricerca ed è tuttora praticante.

«Quanto mi è accaduto in via Petrelli, nel quartiere Libertà, è stata una dimostrazione pubblica di potere e di censura nei confronti di tutti i giornalisti; è stata un’aggressione alla democrazia e all’esercizio del diritto-dovere di informare ed essere informati in Italia».

– Quanto costa oggi fare il giornalista?

«Faccio questo lavoro da quasi trent’anni, e – nonostante sia stata pedinata da camorristi, sia stata minacciata con le armi – non mi era mai capitato di subire un’aggressione fisica di questo tipo. Quello che è successo segnala un’emergenza: svegliamoci. Aver condannato e messo in carcere i grandi boss non significa aver liberato i territori dalle mafie. Nei quartieri difficili, nelle periferie degradate dobbiamo andare in massa a fare inchieste: il dovere dei giornalisti è portare luce in quei meandri bui del nostro paese dove c’è omertà, ingiustizia, illegalità, dove vige un altro Stato. Noi abbiamo questo compito, non ce l’ha nessun altro. Quello che è accaduto a Bari è stato un attacco a tutti i giornalisti italiani che in modo deontologico e corretto fanno il loro dovere».

– Quali azioni di contrasto occorre mettere in campo?

«Sono necessari presidi di legalità nei quartiere a rischio di ogni città d’Italia; occorrono commissariati nelle zone disagiate e nelle periferie, a cui il cittadino può rivolgersi quando è in difficoltà. Non si può risparmiare sulle forze dell’ordine, e soprattutto bisogna investire sulle politiche sociali e di prevenzione rivolte ai giovanissimi. Oltre 3 milioni di giovani italiani, i cosiddetti “neet”, non studiano, non hanno un lavoro e neanche lo cercano. Lo Stato ha il dovere di rintracciarli, di capire quali sono le loro storie, le loro famiglie, perché dove non arriva lo Stato, arriva la criminalità organizzata a reclutarli».

– Per queste giovani vite che sperimentano un vuoto educativo, affettivo, familiare enorme, c’è possibilità di riscatto?

«Certo. Nello speciale Tg1 al quale sto lavorando, do conto del programma dello Stato per la legalità che si chiama “Liberi di scegliere”, frutto di un protocollo del Tribunale per i minori di Reggio Calabria con il Ministero della giustizia e l’associazione “Libera”. Oggi, dove ricorrono certe condizioni, i figli dei mafiosi possono essere tolti alla famiglia d’origine e affidati a famiglie volontarie del Nord, dove intraprendono un nuovo percorso di vita . Sono oltre 40 i ragazzi che sono nel programma insieme alle loro madri che hanno chiesto aiuto allo Stato. È una rivoluzione dal basso, che va fatta conoscere. Se vogliamo che il nostro rimanga un paese democratico dobbiamo cercare questi ragazzi, investire nelle politiche sociali, e rafforzare quel volontariato che rappresenta la parte migliore dell’Italia. Vanno sostenuti tutti coloro che tengono le lampade accese, esattamente come le vergini che aspettano il ritorno di Cristo».

— Oggi è a rischio la libertà di informazione?

«Sì, soprattutto in questo momento in cui conta la visibilità sui social, in cui imperversano le fake news, in cui si scrive quello che passa dalle agenzie o da Youtube… Non è così. Fare giornalismo costa fatica, soldi, tempo: significa andare sui luoghi in cui avvengono i fatti; significa fare le indagini in modo articolato, rivolgendo le domande pertinenti, studiando il territorio. Il giornalista deve avere un’etica e una deontologia professionale di grande rigore. Deve dare un’informazione completa: chi non racconta tutti gli aspetti della vicenda, ma favorisce solo una parte, non può dirsi giornalista. Quando in Tv si fa pubblicità ai figli di boss senza raccontare chi sono i padri stragisti, o le condanne che hanno avuto, vuol dire fare i megafoni, non i giornalisti. In più, quando il giornalista fa “l’amicone” con il figlio del boss condannato, si crea nella mentalità della famiglia mafiosa, l’idea che ci sono i bravi giornalisti e quelli “cattivi”, che – se danno fastidio – vanno aggrediti».

— Se dovesse dire in poche battute qual è la sua vocazione, parola così cara agli evangelici…

«La ricerca della verità. Io detesto la doppia morale: non si può separare la morale che si pratica nella vita pubblica da quella che si pratica nella vita privata. Noi siamo tutt’uno e siamo chiamati ad essere un esempio reale, non utopistico, di “praticatori” di bene e di legalità. Avere una doppia morale significa vivere l’ipocrisia dei farisei contro cui Cristo ha sempre lottato. In Italia c’è un popolo di persone, “praticatori” di bene e portatori di buone novelle, che sono esclusi dai programmi tv, dall’informazione perché il bene “non vende” quanto il male dal punto di vista commerciale. Oggi i giovanissimi soprattutto nei quartieri del disagio vivono un grande vuoto che riempiono con modelli violenti che li rendono visibili. La logica dei social per loro è: se non sono visibile non sono nessuno. Tutte le fiction e i programmi Tv che propongono i loro modelli basati sul male a tutti i costi che esclude il bene, sono in mala fede. Tale comunicazione violenta distribuisce la “modica quantità” culturale malata a chi vive il vuoto. Ma tale rappresentazione, frutto di un’operazione di marketing mascalzona, è falsa perché la realtà contiene sempre e comunque la speranza e una via d’uscita. Va invece detto che questo paese si regge ancora su un popolo che non si volta dall’altra parte quando c’è una lite ma presta aiuto, che è in prima linea per la legalità e la trasparenza: questa è l’Italia nella quale io credo, un’Italia evangelica di fatto, che cerca la verità e il bene».