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Il giorno dopo il voto

Per una coincidenza dai risvolti amari, l’Italia prende atto dei risultati elettorali negli stessi giorni in cui il Partito socialdemocratico tedesco ha dato il via libera a una nuova edizione della Grosse Koalition, unica strategia possibile per governare la Germania. C’era un rischio, paventato soprattutto dal settore giovanile della Spd: che una quarta stagione a guida della cancelliera Merkel ne svilisca sempre più l’identità. Per il bene del Paese si fa…

Uno scenario inimmaginabile nell’Italia delle gelosie e dei rancori «inter-coalizione». Rivalità che si nascondono sotto il tappeto quando una coalizione vince (salvo poi non riuscire a durare più di tanto, come accadde a Prodi) e che invece esplodono quando va male. Nel centro-sinistra, queste pratiche sono ben note e nessuno può ragionevolmente essere stupito di un risultato che non ha fatto decollare chi si riteneva depositario della tradizione di sinistra e allo stesso tempo ha acuito il crollo di un partito di governo (il Pd) algidamente tecnocratico, inadatto a suscitare una qualsiasi emozione.

Altri, invece, le emozioni le raccolgono, le intercettano, magari amplificandole ad arte, e facendo leva su sentimenti a volte onestamente spontanei, ma a volte indotti e dettati dalla disinformazione. Tutti però sembrano dare scarsissimo peso alla capacità di discutere e alla disponibilità a farsi mettere in questione dagli altri. La contrapposizione, dura, fra Partito comunista e Democrazia cristiana comprendeva luci e ombre, alti e bassi, passioni e delusioni, ma diede luogo all’attività legislativa di alto profilo segnalata qualche settimana fa da Marco Bouchard (Riforma n. 8). Le «battaglie» si vincevano e si perdevano, ma intanto si facevano.

Era un’appartenenza ideologica, spesso schematica, ma che produceva dei frutti. Anche oggi si parla di appartenenza, ma in modo molto diverso. Niente adesione a programmi (chi li ha visti? – intendo: chi ne ha visti di «credibili»?), niente tradizione da difendere: piuttosto un senso di appartenenza esistenziale, dettato dalle fragilità che uomini e donne scoprono in se stessi. Il senso di precarietà dovuto a dieci anni di crisi si è abbinato alla possibilità di una grossa sovraesposizione individuale delle sofferenze e delle aspettative: amplificate da vecchi e nuovi media, le passioni si sostituiscono alle idee, oppure se ne distaccano. Mancano i luoghi dove affinare le idee (e se ci fossero, in quanti ci andrebbero?), e queste arrivano in piazza senza filtraggio, dando corso a proposte irrealizzabili o a minacce nei confronti dei più deboli, esposte spesso con toni truculenti.

Le nostre fragilità (è fragile il migrante, è fragile chi vive in una periferia in cui non si riconosce più cittadino, è fragile chi non ha lavoro e chi non riesce ad andare in pensione) sono destinate a entrare in collisione fra loro perché nessuno è più abituato a spiegarti da dove vengano, e nessuno è più abituato ad ascoltare una spiegazione. Si vota ritenendo di vedere in uno slogan il senso della propria esistenza anzichè la ricerca della soluzione a un problema. Si promette di cancellare quanto fatto da chi c’era prima (è stato annunciato per esempio per il fine-vita); in una materia delicata e centrale nella vita di uno Stato, come la scuola, un susseguirsi di mezzeriforme è consistito nell’annullare le riforme precedenti, e via dicendo.

È colpa solo della politica? Certo no: ma l’individualismo in cui viviamo, cercando di rendere il nostro guscio sempre più protettivo (di fronte alle malattie, alle basse temperature, a ogni possibile turbativa, perfino ai brutti voti) rende difficile avviare quelle discussioni che sono alla base di ogni convivenza civile: che – ci insegnano le assemblee delle nostre chiese – è fatta anche di piccoli gesti, di rispetto degli altri e di consapevolezza dei propri limiti. Guardate i leader che hanno vinto e quelli che hanno perso: quanti ne hanno contezza?