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La parola poetica al di là delle appartenenze

Milano, 30 marzo 1979: un incontro in Duomo, probabilmente in preparazione al tempo pasquale (Pasqua cadeva il 15 aprile). Una preghiera in forma poetica viene pronunciata da Giovanni Testori, scrittore, poeta, critico d’arte e pittore.

E oggi, come in quel 30 marzo 1979, mancano due settimane a Pasqua. Testori era un credente a cui la continua interrogazione di sé permette di scrivere componimenti straordinari per intensità, tanto in materia di fede quanto nell’espressione delle proprie, altrettanto tormentate, passioni. Cattolico e omosessuale: trent’anni fa non era come oggi.

Eppure Testori, deceduto il 16 marzo 1993, pronunciò quella preghiera dotata dal perentorio avvio («Cristo, Nostro Signore, timidamente e tremando comincio a pronunciare queste parole, io l’ultimo arrivato qui, ai piedi della Tua verità e della Tua croce; l’ultimo e il meno degno di quanti stasera si trovano raccolti in questo Tuo tempio e di quanti, nei luoghi di lavoro o nelle case, vanno chiudendo in Te la loro giornata») nella cattedrale, non in una parrocchia ribelle di periferia. Non fu per la lungimiranza del card. Martini (fu insediato solo a dicembre di quell’anno); forse valse la sua vicinanza a Comunione e liberazione?

Testori fu commentatore per il Corriere della sera (un ruolo che era stato di P. P. Pasolini), ma teneva anche una rubrica sul settimanale del movimento cattolico, Il Sabato. Alcune sue posizioni certamente non potevano convincere i protestanti italiani: era solito entrare, senza troppe riverenze, nei dibattiti d’attualità più incandescenti, come quello sull’aborto. Ma lo spessore del suo interrogarsi rendono, ancora oggi, utile e coinvolgente la lettura dei suoi interventi su fatti di cronaca, sulla Bibbia, sul costume.

Un approccio che partiva da un rovello interiore, rovello che tuttavia Testori considerava come intimo. Punto di partenza, non termine di paragone: a differenza proprio di Pasolini, che spesso dà l’idea, nei suoi scritti come nei libri e nei film, di doversi accollare anche le colpe degli altri. La parola di Testori è sempre poetica, creativamente lavorata; e le sue parole, il suo lessico forbito, i termini ricavati dal vernacolo o ripescati nel baule degli arcaismi, costringono il lettore a un doppio sforzo: capire la genesi del vocabolo impiegato (molto spesso dei participi che diventano aggettivi o sostantivi), capire che le parole hanno una storia; ma capire anche che esse possono significare qualcosa di ulteriore.

Perché? Perché la sofferenza dell’amore, quello terreno, carnale, raccontato in particolare nei Trionfi e in Per sempre, ma anche quella delle preghiere e dei racconti dell’amore divino coinvolgono tutti e tutte noi; e poi hanno bisogno di qualcuno che se ne faccia interprete: che scelga un punto di partenza, un abbrivio e poi dia corso alla fantasia, che sfugge ai lacci delle ideologie, quelle consapevoli e volute dall’autore e quelle avvistate dai critici. Allora non conta più il fatto di essere stato esponente di un cattolicesimo conservatore; conta la capacità di passare la materia della fede al vaglio della debolezza con cui ciascuno di noi prova ad accostarvisi.

Testori l’ha fatto con rara intensità, anche nei racconti e romanzi (Il ponte della Ghisolfa, 1958; La Gilda del MacMahon, 1959; Il fabbricone, 1961; Nebbia al Giambellino, postumo, 1995); o nelle opere teatrali come L’Arialda, messa in scena da Luchino Visconti. Ma la stessa operazione fece nella critica d’arte e in una bellissima, secca traduzione della Prima Lettera ai Corinzi (1991). «Sai cosa un giorno solo può restare/ di questa atroce, sconnessa civiltà?/ Il silenzio di chi ha amato,/ il pudore di chi ha compreso/ e ha sentito pietà» (Per sempre).