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M. L. King nelle chiese battiste italiane. Tra presenza e assenza

Si conclude oggi  la serie di articoli dedicati al mondo di Martin Luther King, a 50 anni esatti dalla morte. Dopo il pezzo del pastore Italo Benedetti che ricostruisce il backgroud culturale e spirituale che portò il giovane King a diventare il paladino dei diritti civili, il contributo del professor Massimo Rubboli, docente emerito di Storia dell’America del Nord all’Università di Genova, che propone di rileggere M. L. King al di là della costruzione del mito che ne ha fissato l’immagine al famoso discorso pronunciato nel 1963 “I have a dream”, offuscando la figura radicale che King fu negli anni seguenti, l’intervista al pastore battista David E. Goatley, direttore esecutivo della Lott Carey International e membro del Consiglio direttivo della National Association for the Advancement of Coloured People, la più antica organizzazione per i diritti civili degli afroamericani, sull’eredità di M. L. King alla prova del razzismo ancora vivo negli Stati Uniti d’America, la riflessione del pastore Massimo Aprile  sul carattere redentivo della sofferenza immeritata nella vita e nel pensiero di M. L. King,  e,ad opera di Marta D’Auria, il ritratto di Rosa Park donna di fede e convinta attivista, il cui gesto politico di non cedere il posto sull’autobus ad un bianco diede inizio al famoso boicottaggio dei mezzi di trasporto pubblici a Montgomery, oggi è il turno di questo articolo di Maurizio Girolami che ci restituirà un’istantanea di cosa accadeva in Italia, in particolare nelle chiese italiane, nell’anno in cui veniva assassinato King.

Buona lettura!

Associazioni culturali, circoli, scuole hanno assunto il nome di M. L. King, segno della popolarità di cui questo personaggio ha goduto e gode nel nostro paese. Celebrazioni e convegni sull’opera di M. L. K. hanno permesso di ricordarne l’opera e l’influenza che ha avuto ben al di là dei confini delle comunità religiose.

Noi battisti e protestanti italiani che seguimmo con emozione le notizie sulla lotta nonviolenta delle chiese nere degli Stati Uniti del Sud guidata da King contro la segregazione razziale, seguiamo ora con sgomento la cronaca delle violenze di stampo razzista contro proletari neri e ispanici. E ci chiediamo se e quando la pratica della nonviolenza come metodo di lotta per la liberazione degli «ultimi» abbia fatto parte della nostra esperienza e della nostra storia.

Dalla testimonianza del Movimento Internazionale per la Riconciliazione in tempi di guerra fredda e di singole personalità laiche e religiose alle marce per la pace e contro la guerra, sempre più numerose fino agli inizi del nuovo millennio, ma sempre meno affollate negli ultimi anni, le esperienze di impegno sociale dei credenti sono state numerose. Piccole comunità, cattoliche e protestanti, antesignane dell’ecumenismo di base, e comitati per la pace si sono battuti a sostegno di settori sociali «diversamente segregati» come i senza casa, i mendicanti, gli immigrati. Hanno protestato contro le servitù militari, rappresentate dalle basi militari Nato in Sardegna, in Sicilia e in Veneto e contro le armi atomiche – tuttora disseminate nel nostro paese – e le spese militari.

Ma dove troviamo, in Italia, qualcosa di simile alle caratteristiche salienti dell’impresa di King? Ricordiamola brevemente.

La nuova Gerusalemme e la nuova NewYork

A Montgomery, nel 1955, il rifiuto da parte di Rosa Parks di cedere il posto ad un bianco seguito dall’arresto e condanna di Rosa, è la scintilla che accende un incendio. King ed altri pastori neri promuovono il boicottaggio del trasporto pubblico e dopo 382 giorni di sciopero, con arresti, condanne e violenze da parte della polizia – a cui si reagisce con i sit-in, le marce, la resistenza passiva – viene abolito a Montgomery l’obbligo per i neri di cedere il posto ai bianchi. Partecipano alla lotta centinaia di pastori e migliaia di fedeli neri. La lotta si estende negli anni successivi, prima negli stati del Sud, poi nei ghetti neri delle città del Nord, con risultati talora positivi, ma non stabili poiché spesso le norme anti segregazione vengono abolite. Un esempio eloquente è stato, sotto la presidenza Reagan, il tentativo (bloccato dalla Corte Suprema), di esentare dalle tasse «per meriti culturali» le scuole che praticavano la segregazione razziale.

Ben presto King si rende conto di altri aspetti della condizione dei neri: il lavoro, l’abitazione, la guerra del Vietnam che obbligava i soldati neri, già oppressi in patria, a portar guerra e morte ad un altro popolo. La pericolosità del messaggio di King, condiviso dalle chiese nere, stava nella convinzione che lodare il Signore in chiesa e organizzare la lotta nonviolenta contro la segregazione nella società siano indissolubilmente legati e che la lotta nonviolenta convertirà prima o poi anche i fratelli razzisti. Nel suo ultimo sermone prima di morire egli aveva detto: «Va bene parlare delle lunghe tuniche bianche lassù con tutto il loro simbolismo, ma la gente ha bisogno di vestiti e scarpe da portare qui. Va bene parlare di strade su cui sgorga latte e miele, ma Dio ci ha ordinato di preoccuparci dei ghetti quaggiù e dei loro bambini che non hanno da mangiare tre volte al giorno. Va bene parlare della nuova Gerusalemme… ma il predicatore di Dio deve parlare anche della nuova New York, della nuova Atlanta…». L’essenza della buona novella sta nel rivoluzionare le relazioni tra i credenti e il prossimo ferito e oppresso.

Quando King fu assassinato, nel ’68, in più di 100 città scoppiarono rivolte che la guardia nazionale represse con 39 morti e centinaia di feriti. La stessa sorte ebbero i principali leader del movimento per il Black Power con i quali King si era confrontato più volte.

Il Sessantotto e le chiese

In quello stesso anno nel nostro paese un gruppo di giovani evangelici aderenti al Movimento Cristiano Studenti, che partecipavano alle lotte studentesche nell’università di Roma e «si confessavano cristiani e si dicevano marxisti» intervennero nel culto di varie chiese evangeliche valdesi, metodiste e battiste, distribuendo volantini o prendendo la parola per criticare una predicazione che non prendeva posizione sui principali problemi della società presente: la scuola classista, già denunciata da Don Milani, l’università autoritaria dei “baroni”, le lotte operaie e la guerra del Vietnam. Si evidenziava l’assurdo di una predicazione dell’evangelo neutra e cieca di fronte alle profonde e ingiuste diseguaglianze sociali.

Su questi temi nel 1969 fu presentato al Comitato esecutivo dell’Unione battista un documento, elaborato da due suoi giovani membri, che poneva una serie di interrogativi sulle motivazioni teologiche dell’impegno politico e sociale, che venne presentato all’Assemblea e alimentò nell’ambito evangelico un dibattito teso e appassionato che sfiorò la frattura generazionale, su due posizioni contrapposte: 1) l’annuncio dell’Evangelo e l’appello a ravvedersi è rivolto al singolo individuo, al quale soltanto spetta cambiare i suoi rapporti col prossimo; 2) l’annuncio della salvezza e l’appello a ravvedersi deve comportare il riconoscimento e il cambiamento dei rapporti tra gli individui e tra le classi sociali. L’assemblea del 1974 esortò i sostenitori delle due posizioni ad accettarsi reciprocamente e operare per il rilancio dei battisti in Italia. Di fatto la discussione nelle chiese proseguì e favorì l’aumento del loro impegno sociale culminato nel 1980 in una pubblica critica da parte dell’Assemblea battista al fratello battista Jimmy Carter sulla sua politica estera. Naturalmente i rapporti con la missione americana divennero più tesi e il Foreign Mission Board anticipò l’azzeramento degli aiuti finanziari all’Ucebi, favorendo indirettamente lo sforzo per l’autonomia.

La contestazione nelle chiese evangeliche, per ripensare il senso della nostra fede non era direttamente ispirata dalla predicazione di King ma era figlia del Sessantotto, della straordinaria opera di Agape – in particolare dei campi Africa — e della percezione della secolarizzazione incipiente in Europa.

Non celebrare, ma agire

Il dilemma posto dai contestatori è ancora in piedi e si può riformulare così: è nostro compito celebrare M. L. K. oppure seguirne l’esempio nella nostra pratica quotidiana nel contrastare le diseguaglianze e porre freno alla violenza?

Siamo di fronte al rinascere e al diffondersi, in Italia e in Europa, di una infezione razzista che reagisce alle migrazioni prodotte dal saccheggio da parte del mondo «progredito», delle risorse del Terzo mondo, individuando nello straniero il nemico da cui difendersi. Sono enormemente aumentate le disuguaglianze sociali anche in Italia. Oggi gran parte della ricerca scientifica delle università italiane del centro nord verte su progetti del ministero della difesa. Cresce la spesa per gli armamenti.

Ci sono dunque ragioni sufficienti per lanciare campagne di formazione e predicazione sull’accoglienza dello straniero, che rendano le comunità, cattoliche ed evangeliche, pronte a contrastare lo tsunami xenofobo; per ridar vita a un movimento per la pace che chieda con forza di riorientare la ricerca e la spesa pubblica a fini di pace e non di guerra; per denunciare l’aumento delle diseguaglianze e della povertà anche nei paesi avanzati. Il messaggio di King, a cinquant’anni dalla sua morte, può ancora farci da guida.