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Per le “donne del Daesh” la guerra non finisce con l’ultima bomba

«Gli Stati Uniti, sotto la mia amministrazione, hanno fatto un grande lavoro nel liberare la regione dall’Isis». Era il 12 aprile quando il presidente statunitense Trump rivendicava la vittoria contro il gruppo Stato islamico, che negli ultimi due anni ha perso la quasi totalità dei territori che aveva conquistato a partire dal 2014. Eppure, anche se la guerra territoriale contro il Daesh può essere finita, nei territori che vengono definiti liberati sono in molti a pagare la “colpa” di essere rimasti.

Una ricerca condotta da Amnesty International in otto campi profughi delle province di Ninive e Salah al-Din ha infatti rivelato che donne e bambine sospettate di legami diretti o indiretti con i miliziani del gruppo Stato islamico non hanno accesso agli aiuti umanitari, non possono tornare a casa e subiscono un sistematico sfruttamento e costanti violenze sessuali.

Come racconta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, si tratta di «donne, che oggi sono capifamiglia, che sono trattenute lì insieme ai loro figli con il sospetto che i loro mariti, padri o figli, siano stati membri del Daesh», oppure che siano fuggiti dalle roccaforti del gruppo Stato islamico, o addirittura vittime di uno scambio di persona. «Qui – prosegue – ci sono dei civili che stanno soffrendo per colpe che non sono assolutamente loro». Oggi nei campi profughi iracheni sono molti i nuclei familiari composti solo da donne e bambini che non hanno accesso agli aiuti umanitari e senza i documenti necessari per uscire e per cercare nuove possibilità in luoghi diversi. In diverse parti dell’Iraq, infatti, le autorità locali e tribali hanno vietato il ritorno delle donne e dei propri figli sospettati di avere legami con lo Stato islamico. Per molte di loro rimane una sola possibilità, una strada obbligata che conduce allo sfruttamento sessuale da parte delle forze di sicurezza, del personale armato dei campi e da miliziani presenti all’interno e all’esterno di quelle strutture. In ciascuno degli otto campi visitati, si racconta nel rapporto di Amnesty International, sono state raccolte le storie di donne costrette o spinte ad avere rapporti sessuali in cambio di denaro, aiuti e protezione. «Oggi – racconta Noury – quei campi sono luoghi di insicurezza. Soprattutto per le donne la vita è terribile: sono persone che non hanno un futuro in quei luoghi, perché si portano dietro lo stigma di essere state a loro volta delle combattenti quando in realtà l’unico reato è di tipo familiare, cioè essere la moglie o la figlia di qualcuno che ha combattuto. Se rimarranno lì ce l’avranno per sempre. Bisogna togliere queste persone da quei campi al più presto».

Il problema, però, non è limitato ai campi: nelle aree in cui questi nuclei familiari sono riusciti a tornare a casa, molte donne rischiano sgomberi forzati, saccheggi e violenze. Qui lo stigma si fa visibile, al punto che in alcuni casi le abitazioni di queste donne sono state marchiate con la scritta Daesh e poi distrutte o scollegate dalla rete idrica ed elettrica. Tutto questo segna nei fatti una vittoria culturale del gruppo Stato islamico, sconfitto o quasi sul piano militare e territoriale ma destinato a lasciare una profonda eredità anche a guerra finita. Sin dal 2003 in Iraq il clima di odio è cresciuto, si è venuto a creare uno scontro che è confessionale, politico, etnico, e tutto questo sta andando avanti da oltre 15 anni. «Oggi – riflette Riccardo Noury – non vedo possibilità, soprattutto se poi le autorità irachene continuano a portare avanti questo loro disegno di fare giustizia in questo modo, perché da un lato abbiamo le donne e i loro figli nei campi, mentre dall’altro vengono fatte delle liste di uomini che hanno preso parte alla guerra di Mosul dal lato dello Stato islamico, questi vengono passati per le armi o sono in lista di esecuzione. Si parla di migliaia di persone: in questo modo si alimenta il risentimento e basta».

In Iraq l’eredità del Daesh sembra destinata a essere lo stesso contesto di odio settario che ne ha permesso e stimolato la nascita, ma ancora più radicato e profondo. «Questa ennesima storia di civili che vengono “liberati” e finiscono per pagare la colpa di essere stati sotto assedio – conclude Noury – ci dice che la situazione in Iraq come in altri luoghi in Medio oriente non vede la guerra terminare con l’ultima bomba che cade ma poi ha un suo proseguimento con la sorte dei civili. Sempre più spesso vediamo persone che hanno già vissuto sotto l’assedio di un gruppo feroce avere un secondo tempo di sofferenza nelle mani di coloro che li avrebbero dovuti liberare».