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Ermanno Olmi e la suspense dei sentimenti

Alla fine forse ha tolto qualcosa, a Ermanno Olmi, il fatto di essere una persona di saldi principi e di valori robusti: uomo assai legato alla terra (la provincia di Bergamo per la nascita, l’altopiano di Asiago dove si era stabilito negli ultimi anni, non lontano dalla casa del suo amico Mario Rigoni Stern), di formazione cattolica, è stato più volte arruolato oltre il dovuto nelle fila di un presunto cinema di ispirazione confessionale che in realtà non esiste, nemmeno in Italia.

Valga per tutti la polemica che fece seguito all’affermazione dell’Albero degli zoccoli al Festival di Cannes del 1978: dissero alcuni che dalla vicenda e dai caratteri un po’ fatalisti dei mezzadri della Bergamasca trasudava l’accettazione supina e passiva di una sofferenza imposta (in questo caso dai padroni), come se essa avesse un valore salvifico. Non saranno certo dei protestanti ad attribuire valore salvifico alla sofferenza, neanche quella che viene dallo sfruttamento: ma certo non si poteva attribuire (e Olmi giustamente non attribuì) una «coscienza di classe» a chi non l’aveva, e viveva rinchiuso in una solidarietà di facciata, effetto estremo della povertà ma anche dell’egoismo dei singoli. Non certo l’esaltazione demagogica del popolo, ma una considerazione realistica dei limiti di ognuno e ognuna di noi.

Olmi è scomparso ieri all’età di 86 anni, dopo essere stato colpito una trentina d’anni fa da una malattia che fu invalidante per diverso tempo ma che non gli impedì di riprendersi e di sfornare alcuni film importanti come Il mestiere delle armi (2001, sulla tristezza dell’introduzione delle armi da fuoco nella guerra che Giovanni dalle Bande nere combatte al servizio dello Stato pontificio nel XVI secolo, contro i lanzichenecchi al servizio dei prìncipi luterani: una svolta, quella delle armi, a modo suo epocale) o Centochiodi (2007: la storia di un universitario – guarda caso insegna Filosofia delle religioni – che abbandona la professione e spalleggia gli amici che lungo le sponde del Po si oppongono a una modernizzazione forzata). Non era altrettanto riuscito La leggenda del santo bevitore (1988): prevaleva nel film la dimensione individuale ricavata da Joseph Roth, autore del racconto, il suo dramma dell’alcolismo, la via della redenzione; si perdeva invece l’atmosfera del disastro a cui stava per andare incontro l’Europa, che trasuda dalle pagine che lo scrittore ebreo austriaco pubblicò nel 1939.

Non è per caso, comunque, se siamo andati a ritroso nel ripercorrere le tappe (alcune) del regista. Al di là del film un po’ didascalico sulla figura di Giovanni XXIII (E venne un uomo, 1965), è nei primi lavori che si trova la chiave della poetica del regista. Nato documentarista, anzi, autore di film «aziendali» che dovevano mostrare il lavoro di ditte come la Edisonvolta, antesignana dell’Enel, Olmi si rivela con un capolavoro di tensione emotiva e di adesione al paesaggio, in questo caso quello della montagna e della neve. Il tempo si è fermato (1959), mettendo in scena due soli personaggi, uno più che maturo e uno studente, sembra ambientato in una situazione «claustrofobica»: la cabina di controllo di una diga per la produzione di energia elettrica nelle montagne trentine, e i locali attigui dove il custode, in procinto di andare in ferie, mangia, dorme e accoglie il giovane che dovrebbe sostituirlo per qualche tempo. Il tempo si ferma perché si carica di attese: se Olmi si fosse dedicato al cinema «di genere», al thriller o al poliziesco, avrebbe avuto delle carte importanti da giocare. Ha preferito mettere la suspense al servizio dei sentimenti; mettere in scena le esitazioni dell’animo e le sfumature delle nostre reazioni, sfiorando il dramma e mostrandoci che esso può risolversi anche nel ridicolo. Gli eccessi meteorologici della montagna consentono a un ragazzo di città di scoprire una umanità diversa e al vecchio custode di trovare speranza nella giovane generazione.

Anche Il posto (1961, primo assaggio della vita lavorativa da parte di un giovane di provincia) e La circostanza (il soccorso prestato alla vittima di un incidente d’auto e una ragazza che deve partorire entrano nella vita di personaggi che sembrano schermati dalla loro rispettabilità borghese) mostrano la visione del mondo di un umanista cristiano, che ha sempre cercato di richiamarci alla riconoscenza che dobbiamo avere nelle circostanze – appunto, le circostanze – della vita. Quelle che passano alla storia e quelle intime. Quelle che avvengono in una chiesa che accoglie profughi e migranti (Il villaggio di cartone, 2011) e quelle che si dipanano in spregio ai gradi su berretti e uniformi (Torneranno i prati, 2014, cupa meditazione sulla Prima Guerra mondiale, nell’anno del centenario, un film in bianco e nero e qualche sprazzo di marrone o blu notte), al di là delle appartenenze.

Gran creatore di immagini, sapeva che il cinema a volte deve autocensurarsi, di fronte all’indicibile. Non per caso, pur avendo voluto scrivere con l’amico Rigoni Stern una sceneggiatura tratta dal Sergente nella neve (Einaudi, 2008), non ne ha fatto nulla. Lasciandoci così ieri, come un saggio poco ascoltato, mentre l’Italia scopriva di non essere in grado di tradurre i valori nella pratica della democrazia.