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Una campagna per i poveri, ma non solo

«La nostra società e il nostro Paese sono guidati nella direzione sbagliata, dobbiamo lavorare per superare un razzismo, una povertà e una devastazione ambientale sistemici, e rivedere la nostra visione del mondo».

Così commentano sul sito Internet della loro Chiesa due pastori della Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti (PcUsa) William Barber e Liz Theoharis, leader della campagna nazionale Poor People’s Campaign: a National Call for Moral Revival avviata lo scorso 13 maggio (ne aveva accennato al termine del suo articolo il prof. Massimo Rubboli qui).

I due pastori sono da tempo impegnati sul tema della giustizia sociale, il primo come fondatore di Repairers of the Breach, organizzazione di Goldsboro (North Carolina) che si batte in particolare per la promozione di una “morale pubblica” che difenda, non discrimini o emargini le persone in situazioni di svantaggio o debolezza (poveri, per l’appunto, ma anche donne e bambini, immigrati, lamati, persone lgbtq), e la seconda come co-direttrice del Kairos Center, che si trova presso lo Union Theological Seminary di Manhattan (New York), impegnato nell’ambito delle religioni, della giustizia sociale e dei diritti.

Entrambi gli organismi sono tra i promotori della nuova Poor People’s Campaign, che in realtà già da due anni promuove azioni nonviolente in tutto il Paese, a partire dalle capitali di 30 suoi Stati, con il coinvolgimento di decine di migliaia di persone.

La campagna del 2018, che durerà quaranta giorni e culminerà nella mobilitazione di massa a Washington il prossimo 21 giugno, promuove come suggerisce il titolo una «rinascita morale» contro il razzismo, le guerre, la distruzione dell’ambiente, e naturalmente la povertà economica, culturale, sociale.

Vasta è stata l’adesione di chiese e società civile: grandi città e piccoli centri, chiese nazionali e comunità locali si sono impegnate nell’organizzare incontri e azioni sociali. Tra i partner dell’iniziativa si contano più di 120 fra chiese, non solo cristiane (dai presbiteriani agli episcopali, dalla Progressive National Baptist Convention alla Chiesta metodista unita, dalla Christian Church – Disciples of Christ alla United Church of Christ al Consiglio nazionale delle Chiese) ma anche ebraiche e musulmane, e organizzazioni attive negli ambiti più diversi: da quelle antimilitariste alle associazioni di veterani, da quelle per la giustizia climatica alle associazioni di difesa dei diritti delle persone lgbtq, ai dreamers e ai loro sostenitori, dalle donne agli afroamericani, dalle associazioni di insegnanti a quelle degli impiegati statali.

Ma perché parlare di una nuova «campagna per i poveri»? Perché quella in corso prende le mosse nientemeno che da Martin Luther King, che cinquant’anni fa, tra il 1967 e il 1968 avviò un’analoga iniziativa, rendendosi conto che era «necessario capire che siamo passato dall’epoca dei diritti civili all’epoca dei diritti umani». King aveva capito che la battaglia per i diritti degli afroamericani abbracciava in realtà una battaglia ben più ampia, che oggi, a mezzo secolo di distanza, si sta ancora combattendo, in America (e nel mondo) per tutte le persone che non hanno accesso alle cure mediche, escluse dal reddito o costrette a svolgere lavori precari e sottopagati, minacciate dal razzismo e dalla xenofobia, dall’omofobia, colpite dagli effetti delle guerre.

Come ha commentato un’altra pastora presbiteriana, co-moderatora della 222° assemblea generale della PcUsa nel 2016, Jan Edmiston, «non vogliamo che questo sia semplicemente un modo per ricordare la morte di M. L. King. Non vogliamo limitarci a commemorare la sua figura, la sua vita, ma dire che ci sono ancora persone povere. Molte delle cose che ha predicato circa 50 anni fa sono ancora attuali, e diversi di quei temi, sebbene si tenda a nasconderli, sono ancora con noi».

 

Foto: Giuseppe Milo: Serenity – Miami, Florida