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«L’Europa non deve avere paura»

Torsten Moritz, tedesco, 48 anni, dal primo agosto prossimo sarà ufficialmente il nuovo segretario generale della Ccme, la Commissione delle chiese per i migranti in Europa. Eletto lo scorso marzo da comitato esecutivo, prende il posto ricoperto per quasi venti anni, dal 1999 a oggi, dalla connazionale Doris Peschke,

Moritz, 48 anni, laureato in Scienze politiche a Berlino, è stato coinvolto ai vertici delle reti europee ecumeniche giovanili negli anni ‘90 e 2000, con una particolare esperienza di ricerca e lavoro in Europa orientale negli anni immediatamente successivi alla caduta del muro di Berlino nel 1989, e lavora all’interno della Ccme dal 2003, da ultimo come segretario esecutivo per le politiche e i progetti dell’Unione Europea. In questo ruolo si è occupato principalmente di advocacy nei confronti del Parlamento europeo e della Commissione europea oltre che nei network ecumenici globale sulla migrazione del Consiglio mondiale delle chiese, Cec.

Fondata nel 1964, la Commissione delle Chiese per i migranti in Europa è un’organizzazione che al momento conta 28 chiese e consigli ecumenici provenienti da diciotto paesi europei, oltre a due organizzazioni internazionale che ne sono il partner privilegiato, Il Consiglio ecumenico delle chiese (Cec) e la Conferenza di chiese europee (Kek). Creata per promuovere una visione comunitaria e inclusiva del fenomeno migratorio e per garantire adeguate politiche di supporto alle minoranze sia a livello nazionale che europeo, la Ccme si è a lungo concentrata sugli spostamenti interni al vecchio continente, prima per motivi lavorativi, quindi a causa di ben altre urgenze (dalla cortina di ferro con gli Stato dell’est fino alla fratricida guerra intestina nella ex Jugoslavia); negli ultimi anni l’esplodere delle migrazioni da fuori Europa verso il nostro continente ha gioco forza spostato l’asse di azione e di pensiero dei suoi componenti.

Moritz, in Europa il clima è cambiato: la priorità non pare più l’accoglienza, ma i respingimenti e lo spostamento della questione “a casa loro”. Le chiese paiono sole e deboli davanti alla sfida, è così?

«Siamo in un tempo critico per i rifugiati, per i tanti in fuga da guerre e carestie, per le minoranze. Le chiese parlano molto di ospitalità, ma sono sempre più sole in questi appelli. La politica ci dice che il nostro continente è sempre più inospitale. Si alzano muri, si accentuano separazioni etniche, regionali. Non per questo dobbiamo stancarci, come organismi ecumenici e come singoli individui, di offrire il nostro esempio di cristiani: esempio che si fonda su valori quali l’ospitalità, la solidarietà verso il prossimo, la protezione del più debole. Sarà questa la sfida dei prossimi anni, direi decenni. L’Italia è una perfetta riprova di quanto detto: la vittoria di forze populiste che liquidano il grande tema delle migrazioni con slogan ad effetto sono una preoccupazione, ma le chiese, penso a quelle evangeliche in particolare, con il progetto dei corridoi umanitari volto a garantire un viaggio sicuro a tante persone, è un esempio perfetto di quanto le nostre comunità di fede  possano essere una luce anche nei periodi bui».

Doris Peschke ha guidato la Ccme per venti anni; in questo lasso di tempo tutto è cambiato nel mondo: 11 settembre, migrazioni, guerre un po’ ovunque. Come è cambiata la Ccme in questo tempo?

«E’ davvero cambiato tutto. Venti anni fa le nostre urgenze si chiamavano ex Jugoslavia con i suoi sfollati interni in fuga dalle zone di guerra in cui si perpetuava una vera e propria pulizia etnica, e Est Europa, alle prese con la riorganizzazione post impero sovietico. Sebbene rimangano ancora significativi i movimenti all’interno del vecchio continente, sono i flussi di chi arriva da fuori ad aver stravolto priorità e narrazione. A ciò si è sommata una congiuntura  economica che ha messo in crisi il modello consumistico cui eravamo abituati. Assistiamo dunque ad una preoccupante impennata del razzismo, cui le chiese e gli organismi ecumenici devono far fronte, contribuendo al dibattito nelle nostre società, con tenacia, per non far vincere la paura e la chiusura».

Sembrano a volte delle torri d’avorio le assisi come questa delle chiese europee a Novi Sad, un po’ a dimostrare la differenza fra idea e azione, fra il vorrei e il non posso. Non trova?

«In molti dibattiti emergono queste tensioni, queste paure. Le nostre stesse società paiono divise, sia al loro interno sia nelle relazioni con quelle di altri paesi. E le nostre riunioni rispecchiano questi canovacci. Dobbiamo avere la forza di cambiare la narrazione, di svelare i falsi scoop, di riequilibrare i fatti. L’Europa è in difficoltà per vari motivi, per lo più economici, legati in primis allo spostamento degli equilibri su scala mondiale, all’irrompere di nuovi attori sul palcoscenico. I modelli scelti in questi anni stanno dimostrando tutta la loro fragilità. Ma molti giornali, molti mass media puntano il dito contro il diverso, lo straniero: parlano in questo modo alla pancia e non alla testa e nascondono sotto il tappeto i veri problemi. Ad un certo punto però qualcuno il tappeto lo dovrà sollevare e noi dobbiamo contribuire anche a questo sforzo. E lo possiamo fare con la forza di numeri che mostrano realtà profondamente differenti di quanto narrato. Si tratta di una tendenza pericolosissima che come chiese abbiamo il dovere di affrontare»

Un auspicio per il suo mandato?

«Proseguire nella costruzione di un progetto capace di mostrare un’Europa inclusiva, capace di raccogliere le sfide del proprio tempo, non spaventata a guardare il proprio ombelico. Rendere visibile il bello che già c’è, le centinaia di migliaia di persone che operano per il bene del prossimo, e che per questo non fanno notizia. Cambiare il racconto, parlare e comunicare meglio per incidere veramente in profondità nelle coscienze delle nuove generazioni cui dovremo passare il testimone».