slider_home

In piazza per una solidarietà europea

Giovedì 28 giugno il Consiglio europeo si riunirà a Bruxelles per discutere, ancora una volta, della gestione del fenomeno migratorio, un tema diventato sempre più centrale nelle agende dei singoli governi, ma privo di una gestione a livello di Unione. In particolare, sul tavolo si ritroveranno le regole del diritto d’asilo, oggi ferme a un Regolamento, quello di Dublino, concepito nel 1990 e riformato solo marginalmente nel 2003 e nel 2013. Chiedere asilo in Europa è un diritto, ma l’assenza di regole adeguate a un fenomeno in continua trasformazione, come quello delle migrazioni umane, fa sì che in base a scelte politiche dettate dai singoli governi questo diritto possa essere o meno garantito. La vicenda della nave Aquarius e delle 629 persone bloccate in mare per giorni ne è un esempio.

L’incontro di giovedì 28 sono già state anticipate, almeno in parte, dal vertice informale che si è svolto a Bruxelles domenica 24 giugno, da cui sono emerse due considerazioni. La prima è che tutti i leader seduti al tavolo concordano ufficialmente sul fatto che i flussi vadano gestiti a livello comunitario, ma la seconda è che nessuno, almeno a livello di capi di Stato o di Governo, ha ancora le idee chiare su come trasformare questo principio in azione.

La situazione non sembra essere troppo diversa da quella di inizio giugno, quando le resistenze di governi come quello italiano e dei Paesi del cosiddetto “gruppo di Visegrad” avevano fatto sì che il discorso su una nuova riforma del regolamento di Dublino venisse abbandonata prima ancora di entrare in una vera discussione. «Lo stallo è ancora lì, purtroppo. È da due anni – afferma l’eurodeputata Elly Schlein, relatrice della riforma del Regolamento approvata dal Parlamento europeo a fine 2017 – che i governi hanno questa riforma fondamentale sul tavolo e ancora non hanno saputo trovare nessun tipo di accordo sulla solidarietà interna. L’unico punto su cui i governi europei trovano forme di accordo è sull’esternalizzazione delle nostre frontiere, cioè sul cercare di scaricare le nostre responsabilità su Paesi che sono fuori dai confini europei».

È abbastanza chiaro che a livello strategico quell’approccio non possa dare soluzioni. Da dove partire, invece?

«Noi invece abbiamo bisogno di una grande riforma di Dublino che parta dall’idea che si tratta di una norma ingiusta non solo verso i richiedenti asilo, perché ne calpesta i diritti e li costringe a stare in Paesi dove spesso non hanno legami per fare la richiesta d’asilo, ma anche verso i Paesi di prima linea, come l’Italia, perché le maggiori responsabilità sull’accoglienza sono lasciate su di loro senza riuscire a condividerle».

Quindi nessuna novità rispetto al precedente vertice?

«In realtà una cosa è cambiata. È cambiato che il governo italiano ha fatto una scelta gravissima, che viola il diritto internazionale e che è vigliacca, perché cerca di spostare la battaglia per la solidarietà europea sulla pelle delle persone in mare, anziché farla laddove va fatta, cioè laddove si cambiano queste norme sbagliate. Questa decisione, lungi dall’essere una vittoria dell’Italia dal pugno forte, non ha cambiato nulla, ma anzi, dalle bozze in circolazione sulle conclusioni del Consiglio, la riforma del Regolamento di Dublino sta progressivamente sparendo, arriva all’ultimo paragrafo, anzi all’ultima parola dell’ultimo paragrafo».

Alla luce di questa mancanza da parte dei governi europei, da lei è partita l’iniziativa di mercoledì 27 giugno. L’impressione è che, visto il clima che si respira, questo non sia il migliore dei momenti possibili. Eppure, dal vostro punto di vista è quello giusto. Come mai?

«Ne discutevamo già da qualche tempo con tante realtà europee ed italiane. Questo è il momento giusto perché dobbiamo provare a sfidare gli egoismi degli Stati nazionali che stanno condannando questa nostra Europa, perché è l’inerzia di questi governi che ha aperto le porte all’avanzata di rigurgiti nazionalisti e fascisti in tanti dei nostri Paesi. Questo è il momento di sfidare questi egoismi con una mobilitazione davvero europea in tante città d’Europa che mercoledì alle 18 riempiremo di barchette di carta simboliche, soprattutto dopo la vicenda Aquarius».

Qual è il senso della mobilitazione?

«Vogliamo chiedere a ogni governo europeo di fare la propria parte, di cambiare quel regolamento sbagliato, il Regolamento di Dublino, e di aprire vie legali e sicure per l’accesso in tutti i Paesi europei come unico modo per salvare le vite, ma anche per non lasciare Italia e Grecia gli unici punti di accesso a un intero continente».

Finora come sono state le reazioni?

«La risposta è stata straordinaria, abbiamo già sul sito europeansolidarity.eu l’adesione di oltre 90 associazioni, tante realtà con cui abbiamo promosso l’iniziativa. Tra queste la Diaconia Valdese, la Comunità di Sant’Egidio, la Fcei e il progetto Mediterranean Hope ovviamente, ma anche tante altre organizzazioni internazionali, da Save the Children ad Amnesty, ad Emergency, ai sindacati, ad Arci e ad Acli. La lista è lunghissima e continua ad allungarsi. 3.000 persone hanno già aderito segnando sulla mappa la piazza europea in cui porteranno le barchette, in soli tre giorni dal lancio del sito abbiamo già segnalazioni di 94 piazze europee e ognuno può aggiungere la propria direttamente dal sito».

Si cerca di dare un segno tangibile del fatto che non tutti sono d’accordo con le politiche che criminalizzano la migrazione. Tuttavia, se da un lato è importante tenere il punto sul principio, dall’altra le decisioni che verranno prese dovranno anche reggere su un piano pragmatico. Ecco, anche se una strategia unitaria sarebbe ampiamente preferibile, sarebbe però accettabile una soluzione a due velocità pur di muovere la situazione?

«Se funzionasse sì, ma ormai bisogna essere pragmatici. Il punto è che una proposta di compromesso, quella bulgara, è già stata presentata, ma non poteva funzionare perché non aveva una reale solidarietà, ma solo a titolo eventuale, con soglie altissime di richieste, ma in cambio chiedeva la responsabilità di 8 anni per le richieste di asilo per i primi Paesi di arrivo. Insomma, non piaceva a nessuno pur essendo un compromesso».

Quindi da dove ripartire a livello politico?

«Noi chiediamo ai governi di prendere a esempio il lavoro del Parlamento europeo, che è riuscito con i due terzi di maggioranza, quindi una maggioranza storica, a trovare un’ottima soluzione, una soluzione europea, superando il criterio ipocrita del primo Paese di accesso in direzione invece di un meccanismo di ricollocamento automatico e permanente, che anzitutto valorizzi i legami significativi dei richiedenti asilo e che obblighi tutti i Paesi a fare la propria parte. È necessaria una soluzione bilanciata, l’unico vero modo per contrastare quei movimenti secondari di cui tanto si sente parlare in questi giorni, fatti da persone che si muovono autonomamente attraverso i confini».

Questo è un tema molto marginale nella comunicazione italiana, molto concentrata sul fenomeno degli sbarchi e non su quello che avviene successivamente, ma i movimenti secondari non sono meno importanti. Pensiamo a Ventimiglia o a Bardonecchia, solo per citare i luoghi più rilevanti in questo senso. Come si potrebbero evitare fenomeni del genere, al netto della contrapposizione Italia-Francia?

«Bisogna dare un po’ di spazio al fatto che siano persone, che hanno dei legami familiari che spesso vengono calpestati da procedure lente che derivano dalla nostra capacità di scrivere norme più certe, più efficaci, più giuste, più rispettose dei diritti. Cancellando il criterio del primo paese d’accesso non c’è più l’incentivo per le persone a cercare di nascondersi e di muoversi autonomamente in un altro Paese, perché non c’è più il terrore di essere registrati in un Paese dove non hanno alcun legame e dove non hanno intenzione di rimanere per affrontare la richiesta di asilo e poi magari il resto della loro vita. Ecco, quindi chiediamo che il Consiglio parta dal testo del Parlamento europeo per cominciare a trovare l’accordo sulla solidarietà interna. È già una soluzione approvata da due terzi del Parlamento, quindi da famiglie politiche che sono esattamente le stesse che sono rispecchiate nei governi che siedono al Consiglio».