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Ricchezza e povertà interrogano le Chiese

Prende il via domenica 29 luglio ad Assisi, per concludersi sabato 4 agosto, la 55a sessione di formazione ecumenica del Sae – Segretariato attività ecumeniche –, che ha per titolo «Le Chiese di fronte alla ricchezza, alla povertà e ai beni della terra», in riferimento al versetto dell’epistola ai Filippesi (4, 12) che dice «So essere nell’indigenza, so essere nell’abbondanza». Della sessione, che vedrà alternarsi relatori e relatrici delle chiese cattolica, protestanti e ortodosse, parliamo con il presidente del Sae, il biblista Piero Stefani.

– Perché, dunque, questo titolo e questo riferimento biblico?

«La ragione principale di questa scelta è la presenza dei due termini antitetici, indigenza e abbondanza, e il fatto di saper vivere nell’una e nell’altra: in questo nostro mondo a volte ci si trova in una condizione, a volte nell’altra, o anche in una situazione intermedia, e non è detto che sia possibile vivere con tranquillità da una parte e non dall’altra…: la fede ci chiede di vivere là dove siamo. Ma nello specifico del passo biblico è molto interessante il fatto che questo versetto Paolo lo inserisca alla fine, nei saluti, ringraziando i Filippesi per l’aiuto che gli hanno dato. Però Paolo tiene anche a ribadire un fatto, come sempre nelle sue Lettere, e cioè che egli rivendica a sé la propria capacità di lavoro, la propria autosussistenza: non ha cioè bisogno di dipendere dalla vita altrui, e questo è importante perché la gratitudine, sia verso Dio sia verso gli altri, la si ha non quando si è nel bisogno estremo, ma quando si è liberi. Questo è un impegno che noi dobbiamo affrontare per cercare una società in cui la gratitudine si possa manifestare, là dove non ci sono bisogni assillanti e impellenti».

Il 2018 viene dopo l’anno fatidico del 500° della Riforma e per tutte le Chiese riprende un anno «normale» per la pratica e il cammino ecumenico: ma che cosa è «normalità» per l’ecumenismo che è un processo da costruire passo dopo passo?

«Certo, quella dell’ecumenismo non è una “normalità statica”, ma in proposito farei questa considerazione sull’eredità di questo anno di celebrazioni: tra i vari aspetti, c’è stato quello di mettere in evidenza l’importanza del fattore storico di quella data; l’ecumenismo deriva da una serie di componenti che sono radicate in una storia largamente occidentale ed europea; e allora bisogna mantenere il tema e riprenderlo, non esaltando la storia come un assoluto e tantomeno come una fonte di identità compatte e non dialoganti, ma al contrario, per dire come la conoscenza storica sia un elemento fondamentale per relativizzare certe differenze, per pensare come certe differenze non derivino soltanto da diverse interpretazioni della Parola e della tradizione (che pure sono elementi fondamentali), ma anche da una serie di vicende storiche che non vanno trascurate. E questo è un elemento importante in un’epoca come la nostra, in cui la conoscenza storia è francamente poco considerata anche nell’ambito di molte esperienze religiose, che vivono la dimensione del presente e dell’esperienza senza tener conto di questo apporto culturale che non va assolutizzato, ma che va considerato come un apporto fondamentale, anche se “esterno”, per avere una coscienza di fede più matura».

– Le Chiese, oggi, sembrano ripiegate su se stesse, di fronte anche alla loro consistenza che va calando e sembrano timide nel dire agli altri le ragioni della loro fede. Può essere utile lavorare insieme per cercare di superare questa impasse?

«Come dicevamo prima, queste chiese sono come un po’ “appesantite” da una serie di questioni secolari che non possono essere dimenticate, ma che non possono neanche essere chiamate in causa per sostenere identità “compatte” ormai quasi tramontate – se non in alcune frange – nella loro compattezza. Io direi così: le chiese storiche cristiane devono cominciare a pensarsi, almeno all’interno del mondo occidentale, come minoranze. Naturalmente, minoranze non settarie, non chiuse ma capaci di dialogare tra loro e di annunciare l’Evangelo. Ma annunciare l’Evangelo significa annunciare qualcosa che è più grande delle Chiese stesse, sicuramente, e che mette in luce anche le insufficienze delle chiese: annunciare l’Evangelo non significa annunciare se stessi, ma annunciare una speranza che trascende se stessi e consente proprio di ammettere le proprie insufficienze: se poi le Chiese lo faranno guardandosi reciprocamente, aiutandosi reciprocamente e perdonandosi reciprocamente, la testimonianza sarà più sincera e più efficace».

Fra i relatori nei vari momenti della sessione, e alla conduzione di momenti di preghiera e meditazione, oltre a Piero Stefani, Enzo Pace, Anna Urbani, Rony Mamaui, Hans Gutierrez, Sarah Kaminski, Simone Morandini, Leonid Sevastianov, Peter Ciaccio (che cura una serata cinematografica), Letizia Tomassone, Paolo Ricca, Sandro Ventura. All’interno del programma un culto di Santa Cena condotto dal pastore Pawel Gajewski (giovedì 2) e una tavola rotonda sul finanziamento delle Chiese, con partecipazione di Paolo Cortellessa (Cei), del pastore Bruno Bellion e del prete ortodosso Ionut Radu.

Per informazioni www.saenotizie.it.