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Arrestati, incarcerati, rimpatriati

Arrestati, incarcerati, rimpatriati. È questo il destino di oltre 68.000 bambini migranti detenuti in Messico negli ultimi due anni, espulsi nel 91% dei casi verso l’America Centrale. Nel rapporto Uprooted in Central America and Mexico, “sradicati in America Centrale e Messico”, pubblicato ad agosto, Unicef ha tracciato i percorsi dei minori che cercano di raggiungere l’America del Nord affrontando difficoltà e pericoli lungo tutta la strada.

Ma chi sono queste persone? Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia, racconta che «sono soprattutto vittime di povertà, di indifferenza, di violenza, di migrazioni forzate e poi di tanta paura di essere espulsi». I bambini che vengono espulsi da Messico e Stati Uniti e rimandati in luoghi come El Salvador, il Guatemala o l’Honduras, spesso si ritrovano a ricominciare in luoghi in cui non hanno una casa in cui tornare e nei quali finiscono per indebitarsi oppure per mettersi nelle mani delle gang criminali locali. «È chiaro – aggiunge Iacomini – che quando si viene riportati alle situazioni più invivibili possibile, è probabile che poi a quel punto si generino nuove migrazioni».

Nella prima metà del 2018 96.000 migranti, tra cui 24.000 tra donne e bambini, sono stati rimpatriati da Stati Uniti e Messico. In molti ricordano le immagini provenienti dal confine statunitense, fotografie e video di figli di famiglie irregolarmente immigrate che venivano separati dai genitori e chiusi in gabbie in attesa di essere rimpatriati: le immagini dei bambini in lacrime furono così forti che persino il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, fu costretto a rivedere le proprie politiche sui rimpatri.

Le politiche di espulsione sono un punto su cui l’Unicef si sofferma nel suo rapporto, sottolineando che la separazione familiare e la detenzione da parte delle autorità competenti in materia di migrazione sono esperienze fortemente traumatizzanti, che possono pregiudicare lo sviluppo a lungo termine del bambino. «Abbiamo invitato i governi a lavorare tutti insieme – ricorda Andrea Iacomini – affinché vengano trovate le soluzioni che in qualche modo riducano quelle che sono le cause, cioè le immigrazioni irregolari e forzate, anche perché poi il benessere dei bambini durante questi viaggi è al primo posto e quindi devono essere sempre protetti, come dice la Convenzione sui diritti dell’infanzia del 1989». Guardando ai dati e alle dinamiche raccontati a Unicef, ci si rende conto di molte somiglianze tra le migrazioni americane e quelle che si sviluppano nel Mediterraneo: qui, come dall’altra parte dell’Atlantico, non viene garantito quello che è un diritto sancito a livello internazionale, quello di presentare la propria domanda d’asilo.

«Troppe volte – riflette Iacomini – anche in Europa vediamo bambini e famiglie rinchiuse dentro dei centri di accoglienza, come quelli in Grecia, in condizioni disumane, perché l’Europa non procede ad accoglierli come dovrebbe. Non parliamo di velleità di un governo o un altro, o di scelte politiche, ma di diritto internazionale, di diritto dei rifugiati, di riconoscimenti di status». La negazione di diritti come quello d’asilo, o la mancata protezione dei minori, alimentano un circolo vizioso, in cui l’estrema violenza, la povertà e la mancanza di opportunità nei Paesi d’origine non sono soltanto la causa delle migrazioni irregolari, ma anche una delle conseguenze delle espulsioni dal Messico e dagli Stati Uniti. Paesi come El Salvador, il Guatemala e l’Honduras sono i più poveri dell’emisfero occidentale, con il 74% dei bambini in condizioni di povertà. La violenza, inoltre, è sistematica: tra il 2008 e il 2016 in Honduras, per esempio, circa un bambino ogni giorno è stato vittima di omicidio. Allo stesso modo, a El Salvador 365 bambini sono stati uccisi nel 2017, mentre in Guatemala sono stati segnalati altri 942 casi.

«C’è una specificità dell’America Latina e dei Caraibi – conclude Iacomini – che non è seconda alle grandi sfide, che invece ogni giorno ci troviamo ad affrontare per quanto riguarda i Paesi più vicini a noi come quelli africani».