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Una chiesa di minoranza in dialogo con il mondo esterno

Tratto da www.chiesavaldese.org

Si sono concluse domenica, con le note coinvolgenti della sinfonia n° 9 di Dvořák “Nuovo mondo”, le celebrazioni per i cento anni della Chiesa evangelica dei Fratelli Cechi nata nel 1918, con il disfacimento dell’impero austro-ungarico, dall’unione fra riformati e luterani, ma erede di una storia ben più lunga, che origina dalla riforma di Jan Hus e che ha fra gli antenati più prestigiosi anche Jan Comenius. Una piccola minoranza protestante che ha sempre voluto rivendicare il suo profondo radicamento nella storia della nazione ceca, insieme alla vitale appartenenza al protestantesimo mondiale, largamente rappresentato nella folta delegazione di ospiti ecumenici internazionali (la Chiesa valdese era rappresentata da chi scrive queste note, membro della Tavola valdese).

In un Paese che durante il regime comunista si è quasi del tutto secolarizzato (alla stessa Chiesa cattolica oggi appartiene non più del 10% della popolazione), i cento anni di vita della Chiesa evangelica dei Fratelli Cechi sono stati caratterizzati dai travagli e dalle tensioni (anche interne) di una storia attraversata dall’occupazione nazista, dall’avvio del regime comunista, dalle speranze di libertà suscitate dalla primavera di Praga del 1968 (represse con l’intervento militare sovietico), fino alla cosiddetta “rivoluzione di velluto” che aprì la strada verso il ritorno alle libertà democratiche e poi all’adesione alla UE.

Cento anni che offrono – come evidenziato nelle conferenze, culti e momenti di testimonianza durante i tre giorni di celebrazioni – molte ragioni per cui essere grati al Signore e molte ragioni di riflessione, in particolare sul tema dei rapporti fra chiesa, stato e società, in vista di una rinnovata missione di testimonianza evangelica. 

Una storia da raccontare soprattutto alle nuove generazioni, spaventate anche dalla responsabilità di garantire l’indipendenza economica della chiesa, che è uno dei prezzi della libertà (nel passato ai controlli e alle forti limitazioni nell’organizzazione imposte dal regime, facevano da contraltare i contributi ricevuti dallo stato per il mantenimento della chiesa, da alcuni anni in progressiva diminuzione).

Nelle parole del prof. Pavel Hosek alle centinaia di persone che hanno riempito il teatro in cui si sono svolti gli eventi conclusivi sono emersi i quattro doni speciali da coltivare responsabilmente come compiti per il futuro: 1) l’eredità della Riforma boema, con la forte tradizione di rispetto della libertà di coscienza, che ha consentito alla Chiesa di sviluppare un modello di unità nel quale possono convivere tradizione riformata e luterana, ma anche spiritualità pietista e di impegno più civile e sociale, linee teologiche liberali e conservatrici. 2) La tradizione di un approfondito, appassionato lavoro biblico, che non deve, però, mai scadere in pedante biblicismo o sterile accademia, con il rischio di esprimersi con un linguaggio intellettualistico che perde il contatto con la vita reale; 3) Il valore dell’essere chiesa di minoranza, un dono che da puro elemento sociologico (non frutto di una scelta) sia capace di tramutarsi in impegno a vivere liberi dalle logiche di potere che spesso appesantiscono le maggioranze, resistendo, però, al rischio di nutrire una mentalità chiusa o elitaria, incapace di comunicare con il mondo esterno. 4) La tradizione di un forte impegno di vigilanza e sensibilità sociale, culturale e politica, capace di alzare una voce critica e profetica nei momenti cruciali in cui si devono fronteggiare sfide concrete, dalle politiche locali a problematiche umanitarie più globali.

A questa tradizione appartengono, nel passato, l’adesione coraggiosa di numerosi esponenti della Chiesa alla “Carta 77” (manifesto del dissenso al regime comunista); come da ultimo (lo scorso mese di luglio) la dichiarazione (per nulla popolare in questo momento della storia nazionale ed europea) di aperto dissenso con la politica del governo ceco di rifiuto di qualunque forma di accoglienza di quote di rifugiati giunti in Italia, come negli altri Paesi più esposti ai grandi movimenti di profughi e migranti degli ultimi anni. Nel saluto del segretario generale del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), Olav Fykse Tveit, l’apprezzamento per questa posizione e il senso della comune sfida che su questo fronte, davvero cruciale per una coerente testimonianza evangelica, lega le chiese protestanti (ma, si potrebbe dire, tutte le chiese cristiane) in Europa.