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Non costruire il muro, costruisci un tavolo più grande

Mai come oggi, l’America è un paese diviso da un muro, quello che il presidente Trump intende costruire o rafforzare: una cortina di ferro e cemento che dovrebbe correre dalla California fino al Texas, un’opera immensa e colossale, dai costi ancora imprecisati che però competono con quelli che in passato erano stati dedicati alla conquista dello spazio. 

Vari osservatori, anche conservatori, attribuiscono la responsabilità di questa polarizzazione interamente al Presidente, che ha apertamente sfidato il Congresso bloccando il bilancio federale, misura che per varie settimane ha congelato i salari dei dipendenti pubblici. Piuttosto che mediare, il Presidente è andato allo scontro e, dichiarando il muro misura d’emergenza nazionale, ha autorizzato se stesso a mettere in bilancio una spesa di 8 miliardi di dollari per avviare l’impresa. La sua scommessa è che il Congresso che uscirà dalle elezioni di mid term del prossimo novembre sarà più flessibile. Ma le cose potrebbe andare anche diversamente e il Presidente potrebbe perdere la maggioranza in almeno in uno dei due rami del Congresso. 

Visitando le chiese, non si percepisce questa spaccatura. In decine di incontri con pastori, dirigenti, membri delle varie denominazioni protestanti degli Stati Uniti è difficile sentire una voce di sostegno a Trump e alla sua politica migratoria. Al contrario si ha la netta sensazione che il nucleo delle chiese storiche costituisca una delle punte più esposte di un «fronte umanitario» che contesta radicalmente il Presidente e il muro. Per fare un esempio la Chiesa presbiteriana – 1,7 milioni di membri e 10.000 chiese locali – ha adottato una risoluzione che suona come una vera e propria confessione di fede: «Come cristiani confessanti – afferma – siamo obbligati a dichiarare le nostre preoccupazioni per la direzione autocratica che sta prendendo il nostro paese (…) Noi diciamo sì alla potenza divina dell’amore e della giustizia per il prossimo e anche per noi stessi, e diciamo no al potere demoniaco che spinge all’odio dell’altro, semina condanne e crea discordia civile. Diciamo Sì ai ponti (…) No ai muri». La Chiesa metodista unita – circa 7 milioni di membri, oltre 30.000 chiese locali – in seguito al provvedimento della Casa Bianca che ha portato all’espulsione di decine di migliaia di migranti e quindi alla divisione delle famiglie ha pubblicato un poster con questa scritta: «Ero straniero e mi avete strappato mio figlio». E la scritta è apparsa negli uffici metodisti di Washington a pochi passi da Capitol Hill.

Il messaggio che arriva dai vertici del protestantesimo americano è chiaro. E dalla base? «Non costruire il muro, costruisci un tavolo più grande», si legge all’ingresso di una chiesa della United Church of Christ a Sahuarita, a confine con il Messico. E all’ingresso di altre chiese abbiamo letto «L’aiuto umanitario non è un crimine»; in California abbiamo partecipato a un incontro sul tema «Costruire ponti»; in decine di incontri abbiamo incontrato persone che esprimono pubblicamente il loro turbamento morale prima che politico per quello che sta accadendo in America. Discutendo con diversi teologi di due importanti seminari teologici come quello di Minneapolis (Ucc) e New Holland (Reformed Church of America) abbiamo raccolto accenti molto preoccupati per la «idolatria» che si sta diffondendo attorno al programma del muro: la sua funzione salvifica, persino redentrice di un’America altrimenti destinata al degrado. Con la benedizione pressoché unanime del movimento evangelical, che continua a credere che, nonostante le anomalie etiche nella biografia del Presidente, questa amministrazione potrà «rifare l’America grande» e soprattutto – anche grazie al muro – potrà rifarne un modello di «nazione cristiana».

Di fronte a questa ondata i cristiani liberal delle chiese protestanti si mobilitano. E riflettono: Diane Butler Bass, un’autrice specializzata nella scrittura di libri teologici per non specialisti, è in libreria con un best seller intitolato Riconoscente. La pratica sovversiva della gratitudine. Un volume ideato nei giorni dell’elezioni di Trump e scritto in mesi di martellanti messaggi in cui la Casa Bianca costruiva il vocabolario della sicurezza nazionale, della supremazia americana, dell’individualismo etico, dell’egoismo sociale. La resistenza spirituale all’idolatria della sicurezza passa anche attraverso il recupero dell’idea evangelica del dono e della grazia.