coraggio

La vita delle parole/coraggio

Si parla molto di coraggio. Ce ne vuole per pensare con la propria testa, per dire dei no, per prendere delle decisioni e operare delle scelte, per aprirsi all’altro in maniera autentica. Se ne parla molto forse perché ne abbiamo poco e il rischio è di scambiare il coraggio con l’eroismo, qualcosa che trascende il quotidiano. Allora diventa coraggioso chi è spavaldo, chi si butta nella mischia e urla più forte, chi sfida il pericolo e sa farsi insensibile ai tumulti della vita.

Il coraggio è la virtù del cuore (cor) che nel mondo antico era la sede del pensiero, oltre che delle passioni. Dunque esso è una forza interna, che viene dal cuore e investe la persona tutta. Questo ci dice che il coraggio non ha nulla di militaresco, non è freddo e insensibile. Coraggio significa avere paura e andare oltre quella stessa paura. È un’operazione sofferta, drammatica, un agire «malgrado» e un vivere «nonostante», in un corpo a corpo con la realtà. 

La Bibbia ci regala numerose figure coraggiose: da Abramo che trova la forza di partire a Rut che esercita la virtù dell’amore fedele; da Mosé che sa essere solidale a Giobbe che è coraggioso nella sofferenza. Fino ad arrivare a Gesù che, tremante e angosciato nel giardino degli ulivi, ci rivela un’intensa umanità. Un’umanità sempre in bilico tra morte e resurrezione.

Allora il coraggio che serve per stare al mondo non è mai tronfio, spettacolare ma sa fare i conti con ciò che siamo: complicati e vulnerabili. Una virtù che non rifiuta la nostra povertà di individui ma che la attraversa e la assume pienamente su di sé. Per ricominciare dopo aver costruito noi stessi, per esercitare la nostra libertà dando inizio a qualcosa di nuovo e non limitandoci a percorrere il cammino già tracciato.

W. Blake, I tormentatori di Giobbe (1785-1790), wikimedia