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La fede in forma di teologia

10 marzo, domenica della Facoltà valdese di Teologia: le chiese valdesi e metodiste sono invitate a ricordare il lavoro di questo strumento di crescita spirituale, per ogni membro di chiesa. Ne parliamo con il pastore Fulvio Ferrario, docente di Teologia sistematica e decano della Facoltà stessa.

– Karl Barth sosteneva, di fronte agli studenti, che chi studia teologia ne è come posseduto: cioè non di una scienza si tratta, ma di un modo di essere. Vale ancora per noi oggi, in una società secolarizzata e basata sull’idea che studiare significa «acquisire competenze»?

«Partirei dalla chiesa: occuparsi di teologia è uno dei modi di vivere la vocazione cristiana, nel quadro della comunità. Il pensiero di Barth si potrebbe riassumere così, con parole non sue: la teologia è discepolato nella forma del pensiero. Il discepolato non è riservato a superdonne e superuomini, però è una forma di esistenza che ha caratteristiche specifiche e ne esclude altre. Tra queste caratteristiche ci sono anche le competenze specialistiche, che fanno parte dell’identità del pastore evangelico».

– In questo quadro, non c’è il rischio di sentirsi un po’ sull’ultima frontiera, tra vittimismo e senso di superiorità (siamo pochi, ma pur sempre nel giusto, a fronte degli altri che sono ignoranti)?

«È la fede cristiana stessa che, nella società secolare, si trova nell’angolo: non tanto dal punto di vista socio-politico (per ora, le chiese fanno ancora parte del paesaggio), quanto sotto il profilo culturale. Un certo establishmentculturale considera la dimensione del credere come un residuo di tempi ormai trascorsi. La teologia condivide questa specie di commiserazione pseudointellettuale, e la sopporta senza complessi:dove è la fede, dove è la chiesa, lì è anche la teologia».

– La Facoltà valdese ritiene di dover cercare o di dover fornire dei modelli, nei confronti del panorama culturale italiano?

«La Facoltà si è sempre concepita anzitutto in vista della formazione dei ministri della chiesa e, da parte mia, spero continui a farlo, in forme diverse, anche in futuro. In alcune situazioni, la Facoltà ha avuto docenti di assoluto livello internazionale, ma nemmeno allora la cultura italiana se n’è accorta in termini adeguati. In fondo, la nostra Facoltà non è alla ricerca di modelli. Forse non è casuale che il Sinodo abbia scelto cinque professori ordinari che, fosse per loro, avrebbero in testa ciascuno un modello diverso».

– Molto è cambiato, nell’assetto della Facoltà, per stare nell’ambito delle normative universitarie ma anche, dall’altro, nel novero delle Facoltà «sorelle»: come ci si è mossi e ci si muove per stare al passo con le strutturazioni dei piani di studio e dell’offerta formativa?

«Si sudano le proverbiali sette camicie, ci si riesce. Siamo bene inseriti nel contesto teologico (cattolico, ovviamente) italiano e nel sistema universitario europeo: sia sul piano organizzativo sia su quello scientifico. In Italia, la percentuale degli universitari che può usufruire del programma Erasmus è circa del 10%. Da noi tutti gli iscritti alla laurea specialistica trascorrono due semestri all’estero, e anche altri e altre possono farlo».

– Quanti sono gli studenti e quale la loro appartenenza denominazionale?

«Gli studenti in vista del pastorato sono una ventina, della quale metà non italiani (trascorrono da noi due semestri, con i programmi del Centro Melantone). Gli italiani sono in questo momento battisti, metodisti e valdesi. Poi ci sono circa 150 iscritti al corso di laurea in Scienze bibliche e teologiche, evangelici e non, credenti e non. È un gruppo ampio e, nel complesso,  molto interessante e motivato».

– Altri servizi aperti al pubblico?

«La biblioteca è un gioiello; il Melantone è un polmone internazionale; tutti i corsi sono aperti al pubblico, ma alcuni corsi sono in orario tardo pomeridiano (alle 18), per favorire l’affluenza. Diciamo che sono il nostro “sportello teologico” sulla città di Roma».

– Un appello che vorrebbe rivolgere alle chiese? Come si può affiancare alla preparazione scientifica la formazione delle persone in procinto di diventare pastori e pastore?

«Questo nucleo di problemi è delicatissimo: e come tutti gli italiani si sentono allenatori della nazionale di calcio, così tutti noi evangelici abbiamo opinioni molto profilate al riguardo. Non è detto che quelle di un professore della Facoltà siano più intelligenti di altre. Dunque rispondo a titolo personale, non come pastore, professore o decano.

L’appello: credo che le chiese debbano fare formazione ed esercitare il primo discernimento vocazionale. Naturalmente sarà provvisorio, come molti altri in seguito, ma è essenziale. In un certo senso è la chiesa (non solo la comunità: la chiesa nel suo insieme) che “insegna” al giovane studente anche l’atteggiamento con il quale affrontare gli studi teologici, più della Facoltà o della Commissione Ministeri, che per conto della Tavola valdese segue le persone che intendono candidarsi al ministero».

Detto questo, io ho incontrato alcuni professori che incarna(va)no il “modo di essere” del quale parlavamo e mi hanno testimoniato la fede nella forma della teologia. Se questo accada anche alle studentesse e agli studenti di oggi, non possiamo naturalmente dirlo i miei colleghi e io».