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Biotestamento, un diritto incompiuto

Il 22 dicembre del 2017 il Parlamento italiano approvava in modo definitivo la legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, una norma che andava a colmare un vuoto, garantendo in linea di principio al cittadino la possibilità di prendere delle decisioni sul proprio percorso medico-sanitario in vista di momenti in cui quell’autodeterminazione non sia più possibile per l’insorgere di condizioni non prevedibili.

Il risultato del lungo percorso era stata una legge sull’autodeterminazione del paziente, e non sul “fine vita” come viene spesso definita che, tra le altre cose, sottolinea l’importanza del consenso informato e dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente, così come stabilisce il diritto del medico a essere tutelato quando rispetta la decisione del paziente.

Tuttavia, l’applicazione dei diritti e dei doveri contenuti nella legge è estremamente disomogenea e non sempre si può accedere alle proprie disposizioni da luoghi diversi rispetto a quelli in cui si sono depositate. Nonostante sia trascorso più di un anno dall’entrata in vigore della norma, finora non sono ancora state istituite la Banca dati nazionale e i Registri regionali. «Questa mancanza – spiega Mariella Orsi, sociologa e componente del comitato scientifico della Fondazione Italiana di Leniterapia – fa sì che le Regioni non possano determinarsi in ordine alla raccolta nelle strutture sanitarie di queste disposizioni anticipate di trattamento». Nella Finanziaria del 2017 erano stati stanziati circa due milioni di euro, poi ridotti, proprio per istituire la banca dati, che avrebbe dovuto essere operativa entro il 30 giugno 2018. Inoltre erano stati destinati a questo scopo altri 400.000 euro all’anno con la finanziaria 2018, eppure finora il percorso non è ancora stato completato.

Che cosa prevede la legge?

«La legge prevede che queste disposizioni siano date sia agli ufficiali di stato civile sia ai notai, e inserite nel fascicolo sanitario elettronico. Questo è estremamente importante, perché in qualsiasi posto d’Italia noi ci trovassimo in condizioni in cui siamo anche parzialmente e temporaneamente incompetenti, l’analisi delle nostre disposizioni da un registro nazionale potrebbe permettere al medico di sapere che cosa abbiamo deciso. Non si parla di cure d’emergenza, che vanno comunque fatte, ma di quelle situazioni che abbiamo visto molto discusse nel periodo del dibattito parlamentare, come la nutrizione, l’idratazione artificiale e quelle altre situazioni che possono in qualche modo essere e diventare futili, o per dirlo con la legge “non proporzionate”. Lo abbiamo visto nel caso delle donazioni degli organi: il fatto di avere un registro nazionale ha incrementato e facilitato enormemente l’opera anche di emergenza dei medici, che in qualsiasi situazione possono adire a questo registro unico e vedere se la persona ha in qualche modo dato queste disposizioni e permettere una sopravvivenza ad altri».

Qual è il senso della legge attualmente in vigore, al di là della sua applicazione?

«È una legge minima, è una legge “soft” com’è stata definita, cioè una legge che permette ai medici di non sentirsi soli nel prendere delle decisioni, ma soprattutto per tutti noi cittadini permette di fare i conti con la nostra finitezza nella vita.

Noi rischiamo di pensare che la medicina possa essere onnipotente. In realtà arrivate a un certo punto le patologie si confrontano con un limite, ma se siamo stati in grado di pensarci per tempo.

Troppo spesso si dice di un malato che non è più competente o non ha più la possibilità di decidere. Ma per quanti anni, per quanto tempo, si è prolungato un colloquio tra equipe sanitarie, medico e paziente e i suoi familiari e non è stato in qualche modo reso edotto della possibile progressione di questa patologia e del limite che lui voleva porre a una sopravvivenza attaccato alle macchine? È questo che maggiormente ci preoccupa, come se volessimo mantenere in vita delle persone perché la tecnologia è andata molto avanti ma non ci preoccupassimo della qualità della vita e di quello che la persona ha deciso per sé ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione».

Alla fine di marzo File, la Fondazione italiana di leniterapia, aveva lanciato un appelloper sollecitare passi avanti nella direzione di un registro nazionale. Per ora ci sono state risposte al vostro appello?

«Per ora no, e questo è quello che ci preoccupa, perché quando si parla in nome e per conto di tanti che si rivolgono a noi come a tante istituzioni per chiedere cosa devono fare. La legge c’è e permette a ciascuno di noi di scrivere un modulo, ma non prevede un modulo specifico».

Con la creazione del registro unico e l’inserimento delle disposizioni anticipate di trattamento nel proprio documento elettronico quali sarebbero le conseguenze immediate?

«Fondamentalmente è una semplificazione e soprattutto è una cosa che farebbe davvero fare un salto di qualità, perché darebbe mandato ai medici di dare esecuzione alla volontà del paziente, rendendoli esenti da ogni responsabilità civile e penale per le conseguenze di queste decisioni. Pensiamo a quanto male ha fatto la medicina difensiva, che obbligava i medici a fare sempre di più e anche qualcosa di non appropriato per paura che qualcuno dei familiari li portasse poi in giudizio accusandoli di non aver fatto tutto quel che potevano fare. Naturalmente detta anche le norme: nessun cittadino può chiedere cose contro la legge, contro le norme deontologiche, contro le linee guida che sono la guida scientifica per l’agire di ogni medico».