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Fame e sete di giustizia nella Germania del ‘600

Il nuovo romanzo storico di Laura Pariani, ambientato nella valle del Ticino intorno alla metà del Seicento, ha un sottofondo di meditazione in senso lato religiosa su cui vale la pena di soffermarsi e che potremmo esprimere così: che cosa voleva dire il Cristianesimo per i poveri, i miserabili contadini del tempo? E che cosa voleva dire per i signori, per il potere, per l’occhiuta Inquisizione che controllava e puniva ogni ripensamento personale (“eretico”) del testo sacro? Evidentemente, due cose assai diverse, anzi antitetiche. Si potrebbe parafrasare il detto di Paolo De Benedetti, secondo cui «una verità abbiamo scoperta e rimane: il Gesù del Nuovo Testamento non è un Gesù, ma diversi Gesù» (Quale Gesù?, p. 35) dicendo che nella storia non è esistito un Cristianesimo, ma diversi Cristianesimi, alcuni tra loro compatibili, altri invece necessariamente antitetici.

È questo il caso affrontato in questo romanzo di Laura Pariani, che ricostruisce con passione le vicende della banda di contadini che, vicina senza saperlo a molti gruppi cristiani ribelli nella Germania del secolo precedente, dà origine a una rivolta popolare sorretta dal richiamo a un Cristianesimo dei poveri, più autentico e più vicino alle lontane origini evangeliche di quello imperante nella Controriforma. L’uso di un raffinatissimo italiano screziato, in cui è presente in modo sistematico un substrato dialettale lombardo, corrisponde a una scelta dell’autrice insieme stilistica (la fedeltà alla tradizione letteraria lombarda) e umana (la vicinanza alla lingua dei poveri nella Valle del Ticino). La sensibilità femminista della scrittrice risulta evidente tanto dalla trama del romanzo quanto dal ruolo centrale affidato a una cantastorie, Pùlvara, nel rievocare, vent’anni dopo, le vicende della banda di ribelli.

Il protagonista individuale, il capobanda Bonaventura Mangiaterra, costituisce l’espressione più autentica della “fame e sete di giustizia”, cioè di quella che potremmo chiamare la verità esistenziale del protagonista collettivo, il popolo. Per rappresentare il giovane eroe l’autrice ricorre allo stesso espediente narrativo – che però qui è anche un simbolo, oltre che un espediente – di Guimarães Rosa nel suo capolavoro Il grande sertão: non sveliamo l’enigma, lasciamo che siano i lettori a scoprirlo. ll controcanto di Bonaventura è la vecchia Pùlvara, la “camminante” che possiede il dono della parola che incanta e che, vent’anni dopo, va alla ricerca pietosa dei particolari delle vicende a cui partecipò da giovane (il romanzo alterna capitoli ambientati nel 1652 ad altri ambientati nel 1672).

Pùlvara è anch’essa immersa nel mondo magico dei contadini: crede nelle coincidenze significative, pensa che gli avvenimenti possano essere pregni di valore numerico e che il senso dei numeri vada decifrato secondo le caselle del gioco di Santa Oca, viene guidata da una lupa nella ricerca del corpo di Bonaventura… L’attenzione al cristianesimo, relativamente nuova rispetto al complesso della produzione di Pariani, era già emersa nel precedente libro della scrittrice, lo splendido romanzo distopico Di ferro e di acciaio. In quest’ultimo testo esiste, implicitamente, una dialettica – aperta – tra l’appassionata ricerca di giustizia del giovane Bonaventura e la smagata rassegnazione della vecchia Pùlvara: «tutti trusciamo a sto mondo per nagotta (…) Noi siamo qui di passaggio. Chissà per dove» (p. 268). 

Laura Pariani, Il gioco di Santa Oca. Milano, La nave di Teseo, 2019, pp. 272, euro 18,00. 

Foto via Wikimedia: Carl Ruther, «Storia di Tobia», 1660 circa