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Finché ci saranno storie, ci saranno film

Almeno due i temi affrontati nella serata a cura dell’editrice Claudiana alla vigilia del Sinodo: il libro Bibbia e cinema (inserito, come ha detto il direttore dell’editrice Manuel Kromer, in una collana «Bibbia e…», pensata in primo luogo per le scuole, ma di cui si è capito presto che il pubblico sarebbe stato più ampio), presente l’autore, il pastore Peter Ciaccio, e i possibili intrecci e rapporti tra teologia e “cultura pop”, di cui il cinema stesso è parte.

Con un paio di esempi filmati diversissimi fra loro (un episodio di Dino Risi da I nuovi mostri e il fantascientifico Blade runner, di cui è scomparso da pochi giorni uno dei protagonisti, l’attore olandese Rutger Hauer), il pastore Ciaccio ha spiegato quanto la Bibbia influenzi il cinema. Non che il regista avesse un intento teologico; ma sua era l’intenzione di raccontare una storia seguendo dei parametri culturali i cui schemi sono quasi universalmente noti. Un film, quindi, che con dei riferimenti biblici parla a una cultura, i cui componenti più o meno ne conoscono i riferimenti: ma se si tratta di Bibbia, non si fa sorprendere.

Questo almeno fu lo schema utilizzato fino agli anni ‘60 del 900. Poi si cominciò a utilizzare gli schemi della narrazione biblica anche per parlare d’altro: la vita e la morte, il bene e il male, valori universali. Il cinema – ha detto – racconta delle storie secondo un tempo organizzato da altri: al di là della nostra agenda, a un certo punto, in una sala da proiezione siamo costretti al tempo «di qualcun altro», un’esperienza di kairòs, un’esperienza in cui ci scopriamo straordinariamente vulnerabili.

Elisabetta Ribet, teologa a Strasburgo, ha preso a prestito alcuni interrogativi lanciati da Jacques Ellul, giurista e filosofo riformato: non è giusto – diceva Ellul – che la teologia si debba sempre sforzare di giustificare quanto avviene nel mondo, dai progressi della scienza, agli studi e inchieste sociologiche all’espressione artistica. Il rischio per la teologia, sarebbe, giustificando tutto, di conformarsi al secolo presente. Ellul sosteneva nel lontano 1981 che ormai l’immagine prevale sulla parola e ciò che è nascosto, in secondo piano, venga del tutto escluso da ogni considerazione. Si altera così il rapporto tra ciò che è vero e ciò che è reale. L’interrogazione è importante in particolare per i cristiani, la cui fede si basa sulla narrazione. Allora verrebbe da chiedersi: come dire oggi il trascendente, di cui si occupa la seconda parte del libro di Ciaccio, sulla scorta degli studi del regista e sceneggiatore riformato Paul Scharader? In che modo il cinema può essere d’aiuto? Come evitare d’altra parte che sia la parola a conformarsi all’immagine?

E ancora: la nostra riflessione sta diventando immediata (figurarsi oggi, nell’epoca dei social media…!), come fare allora a ritrovare il tempo della riflessione? La Bibbia è raccolta non solo di parole ma anche di visioni, e al tempo stesso di concretezza. Forse per questo vi troviamo ancora la nostra ragion d’essere. Rispondendo, Ciaccio ha sostenuto che il cinema è largamente debitore dell’immagine, ma esso è soprattutto narrazione, sceneggiatura, cioè racconto scritto per essere associato alle immagini. Si potrà sempre fare cinema se ci saranno storie da raccontare… La storia infatti continua.