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Le parole sbagliate che raccontano i crimini contro le donne

«L’amava, ma lei l’aveva respinto». «Voleva tornare con lei, ma la donna aveva deciso di chiudere il rapporto». «Un raptus per troppo amore». «Un gigante buono incapace di fare del male». Un gigante così buono che alla fine l’ha ammazzata. La lettura dei giornali dell’8 settembre scatena le reazioni di associazioni, gruppi, donne impegnate a combattere il fenomeno del femminicidio. 

La notizia è l’ennesima donna uccisa, Elisa Pomarelli, nel Piacentino. Una giovane impiegata di 28 anni, il cui corpo viene ritrovato due settimane dopo la scomparsa. Strangolata da Massimo Sebastiano, operaio, 45enne, che Elisa considerava un amico. La notizia turba, addolora la perdita di un’altra donna che non è riuscita a salvarsi dalla mano omicida di un uomo. Il modo in cui viene raccontata dai media invece, offende e suscita rabbia. Immediata la reazione delle Commissioni Pari Opportunità di Federazione nazionale della Stampa italiana, Consiglio nazionale Ordine dei Giornalisti e Usigrai e dell’associazione Giulia Giornaliste, da anni impegnate a cambiare la cultura nelle redazioni e il modo di rappresentare le donne da parte dell’informazione.

«L’elenco delle parole sbagliate per raccontare la violenza sulle donne – scrivono – si arricchisce, ad ogni femminicidio, di nuove giustificazioni per il colpevole e di nuove coltellate alla vittima. Che scompare, non solo fisicamente: è una figura marginale nella ricostruzione, verso di lei non c’è rispetto, al massimo attenzione morbosa. L’ultimo caso, a Piacenza, nei titoli e nei contenuti, sui giornali, ma anche in televisione, in radio e sul web, inorridisce, per la superficialità, il racconto concentrato sull’uomo, e sui complici, quasi si cercasse una spiegazione per riabilitarli». Di lui, dopo la cattura e la confessione, si scrive che «appare provato», che «scoppia a piangere», che «si è detto pentito», che «racconta in lacrime che ha fatto una stupidaggine». Il focusè sul dramma che vive l’imputato. Si tende a suscitare empatia nei suoi confronti. Si scrive che l’omicidio è «conseguenza e culmine di un momento di ira durante una lite tra due amici». Persino la magistrata dice che Sebastiani ha ucciso la vittima «nel corso di un raptus d’ira».

Il delitto è, inutile dirlo, “passionale”. Lui che la considerava «la mia fidanzata», lei che oltre all’amicizia non era disposta a dare altro, lui che «non lo accettava perché era innamorato». «Ero ossessionato da lei», «non voleva più vedermi e l’ho strangolata»: lo dice l’omicida, lo ripetono gli investigatori, lo scrivono i giornalisti. L’ossessione come attenuante, va da sé infatti che chi è ossessionato non è padrone di sé. Solo marginalmente, nelle cronache, fa capolino un profilo dell’assassino più da psicopatico che da “gigante buono” (la criminologa Bruzzone descrive «la casa di uno schizofrenico, di uno che può fare qualsiasi cosa»). È una storia raccontata esclusivamente attraverso la prospettiva dell’omicida, le sue giustificazioni. Di Elisa, non si scrive nulla, solo le foto. Salvo suggerire una qualche sua ambiguità: sapeva che a lui piaceva, perché continuava a vederlo? Si instilla il sospetto che in fondo un po’ se l’è cercata anche lei. Una esplicita colpevolizzazione della vittima. A fatica emerge dalle cronache, successivamente, l’identità sessuale di Elisa che amava le donne. «Elisa uccisa da donna e da lesbica» titola GayCenter, che parla di un atto punitivo per Elisa in quanto donna lesbica. Non è una tesi peregrina se anche per gli inquirenti «proprio la sessualità della 28enne, e il conseguente rifiuto, potrebbe essere stato il movente che avrebbe portato il 45enne a ucciderla».

Questo modo di raccontare il femminicidio di Elisa sconfessa tutto il lavoro fatto in questi anni per creare consapevolezza sulla vera natura del femminicidio: crimini di odio e non di «troppo amore». Crimini efferati dettati solo dalla volontà di annientamento. Articoli zeppi di stereotipi e pregiudizi, come quelli di questi giorni, ignorano l’esigenza di un profondo cambiamento culturale, che deve partire dall’informazione, come chiede la Convenzione di Istanbul quale misura di prevenzione del femminicidio. Resta così disatteso il Manifesto di Venezia: questo tipo di cronache sono in palese, pericoloso contrasto con una informazione «attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere». Una carta deontologica sottoscritta da centinaia di giornaliste e giornaliste e – per quello che riguarda il servizio pubblico, inserita nel contratto giornalistico della Rai – ma ancora scarsamente conosciuta e applicata. C’è sempre più spesso chi invoca sanzioni per i responsabili di queste cattive cronache. Ma solo la formazione può essere la chiave di volta per il cambiamento e quella offerta da Ordine dei Giornalisti e sindacato sul tema dovrà essere intensificata.