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Uno strumento per bloccare l’epidemia di odio

Negli anni prossimi sarà una triste ricorrenza, quella del 30 ottobre. La data in cui ricorderemo che, di fronte alla necessità di fornire uno strumento istituzionale (una commissione) per tenere sotto osservazione i comportamenti improntati all’odio razziale, il nostro Senato è riuscito a spaccarsi. Una materia di quelle che richiederebbero – e a volte riescono a ottenere – l’adesione di tutti e tutte, al di là degli schieramenti, ha dimostrato invece il prevalere delle logiche di parte. Anche di fronte alla mozione proposta dalla senatrice a vita Liliana Segre, testimone della Shoah,che pochi giorni fa aveva denunciato il clima di odio razziale e innanzitutto di antisemitismo che circola attraverso il web, e che si manifesta in particolare contro la sua stessa persona. Così l’istituzione della Commissione è stata votata dalla sola maggioranza di governo, con il dissenso poi espresso da Mara Carfagna, Forza Italia, che però è alla Camera.

Non si capisce se ancora qualcuno sia convinto che siamo di fronte a segnali tutto sommato di scarsa entità, insomma ragazzate; o sia convinto che gli insulti e le intimidazioni che percorrono le curve da stadio non possano tralignare nella società tutta; o sia convinto che la pratica dell’antisemitismo, se tollerata, non si estenda ad altre forme di razzismo; oppure sia convinto che tanto vale andare avanti così, e continuare a pensare «prima gli italiani». Ma quali? Anche gli italiani e le italiane con carta d’identità ma con una pelle diversa dalla nostra? O solo quelli doc? Tutti quelli e quelle che si comportano bene o anche quelli e quelle che sono problematici – per condizione, orientamento sessuale, politico, religioso; o quelli portatori di disabilità e malattie? Di limitazione in limitazione, il cerchio rischia di restringersi.

Ci sono persone che devono mettersi il cuore in pace e pensare che sia legittimo farsi trattare a base di insulti, battute da bar e barzellette? È quello che succede su tram, treni e autobus. Tutto bene?

Se qualcuno e qualcuna di coloro che si sono astenuti su questo voto hanno frequentato il catechismo, magari ricorderanno il testo di Matteo 25. Gesù fa una serie di esempi, categorie di persone a cui si dà ascolto, oppure no: l’affamato a cui si dà o non si dà di che mangiare; l’assetato, lo straniero a cui si dà o non si dà accoglienza; la persona nuda a cui si può dare un riparo oppure no; il malato e il prigioniero a cui si può render visita, o si può non visitarlo. In un caso, come nel caso contrario, Gesù dice: «… in quanto l’avete fatto – ovvero: non l’avete fatto – a uno di questi miei minimi fratelli, lo avete fatto a me – o non l’avete fatto neppure a me». Non entro nel merito teologico di un brano che precede di pochissimo la Passione di Cristo ed è carico di significati ulteriori. Rilevo però che il testo evangelico esemplifica molto bene la “proprietà transitiva”, che abbiamo affrontato sui banchi di scuola in matematica. Se in un “insieme”, A è in relazione con B e B lo è con C, allora anche A e C saranno in relazione fra loro. E allora, se anche non si riesce a fare “tutto”, se non riusciremo a salvare tutti e tutte, a sfamare tutti e tutte, ecc., per lo meno evitiamo di aggredire (verbalmente e a volte non solo verbalmente) le persone con cui abbiamo a che fare tutti i giorni. Avere riguardo per loro, serve ad avere riguardo anche con quelle che non incontreremo mai – e serve, detto per inciso, ad avere perfino un certo riguardo per noi stessi.

Tutti e tutte noi possiamo essere oggetto di aggressione verbale e più gravemente di odio per un qualche motivo; e capita anche, purtroppo, che chi è oggetto di insulti oggi ne diventi attore domani. Da questo rischio di epidemia, che nelle manifestazioni estreme è patologico, ci si difende bloccando l’aggressione verbale, senza tante storie. Se non si riesce (non ci si riuscirà mai, completamente) a fermare l’epidemia, bisogna quantomeno renderci consapevoli che questi comportamenti esistono. A questo serve una Commissione del genere. La libertà d’espressione, che è altra cosa, non c’entra niente.