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Epidemie, libri, allarme sociale

Poche volte l’uscita di un nuovo libro è suonata tanto appropriata. In coincidenza con la diffusione del “Coronavirus”, un romanzo dello scrittore Ferruccio Parazzoli, autore di cui avevamo già parlato permette alcune riflessioni sul rapporto fra epidemie, allarme sociale, pregiudizi. Il protagonista di Happy hour (Rizzoli) è un professore di Letteratura francese che sta svolgendo con i suoi studenti della milanese Università Cattolica un corso su La peste (1947) di Albert Camus. La situazione di una città decimata dall’epidemia permetteva allo scrittore premio Nobel una serie di densissime interrogazioni filosofiche e teologiche. Il tutto avviene per una nuova, moderna epidemia che colpisce Milano, inizialmente la zona di corso Buenos Aires, deputata ai ritrovi fra paninoteche e aperitivi: una patologia anomala, un’epidemia di suicidi. Persone di diversa età, condizione sociale e cultura che si tolgono la vita in modi diversi.

Lucrezio, con Virgilio il massimo poeta latino, si ispira all’opera dello storico greco Tucidide per descrivere la peste di Atene (430-a.C.); poi vengono il Decameron di Boccaccio, le leggende medioevali da cui il regista Ingmar Bergman trasse lo spunto per una commedia e per il suo celebrato Settimo sigillo. E opere meno conosciute, come La peste nera di Jack London e il Diario dell’anno della peste di Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe. Ne dà un dettagliato riscontro, in quanto docente di Estetica, il filosofo Sergio Givone (Metafisica della peste, Einaudi, 2012), che naturalmente celebra come uno dei massimi risultati artistici in materia la descrizione della peste del 1630 e del lazzaretto contenuta nei Promessi sposi.

Due sono gli spunti di riflessione che accomunano molte di queste opere: da un lato l’idea antica, dapprima “pagana” in epoca classica, e poi tipica di una visione oscura del cristianesimo, che vede nella pestilenza la punizione divina (da parte degli dei “falsi e bugiardi” o da parte del nostro Dio, poco cambia) per le nefandezze e i peccati commessi dall’umanità: e allora, si salvi chi può, perché chi non muore di peste rischia di andare al rogo, come la ragazza accusata di essere una strega nel film di Bergman. Un colpevole, vero o presunto, scientificamente accertato o frutto della propaganda, lo si deve pur trovare. Dagli all’untore, insomma, come denuncerà Manzoni nella Storia della colonna infame.

In queste opere risalta poi un altro ordine di riflessioni: quelle drammatiche che derivano dal diffondersi della malattia e le trasformazioni che il morbo provoca nella società. Le persone si fanno più diffidenti, i topi vengono fuori (anche nella Morte a Venezia di Thomas Mann, dove si tratta di colera), i parenti si vedono strappar via i congiunti malati, i mezzi non sono sufficienti, si istituiscono cordoni sanitari, le città vengono isolate, gli “sciacalli” impazzano, non si fa a tempo a seppellire i morti, che subito se ne aggiungono altri a ritmo esponenziale. Non c’è da stupirsi che si affermino il sospetto, la lacerazione, la sofferenza per l’isolamento, come purtroppo vediamo avvenire in questi giorni intorno al Coronavirus, dalla squadra giovanile di calcio che mette ai margini un ragazzo cinese ai volantini sugli esercizi commerciali gestiti da cinesi, per continuare con l’ipotesi, da parte di alcune Regioni, di tenere in quarantena, lontani dalle scuole, i ragazzi cinesi che siano rientrati dalla Cina. Insomma, psicosi, e speculazioni sulla medesima.

Il secondo ordine di riflessioni riguarda però chi, invece di creare allarmismo e di mettere al bando persone innocenti, decide di mettersi al servizio della collettività e quindi del proprio prossimo. Nel capolavoro di Camus il precipitare del dramma spinge a cooperare persone diverse, di diverso pensiero e diversa professionalità: il dottor Rieux, spirito scientifico, il gesuita Paneloux. Ne nasce una solidarietà spontanea dettata dal carattere estremo della situazione, ma anche un confronto, come nei migliori “romanzi d’idee”. E naturalmente ci sono le ragioni della fede (Paneloux si rifà a una delle piaghe d’Egitto narrate nell’Esodo) e quelle della scienza. Quel che più conta è la cooperazione, che infonde speranza. 

Camus fu a lungo non credente, ma il suo pensiero di “umanista laico” avrebbe potuto portarlo in direzioni impreviste: un libro del 2002 si intitola Camus et Bonhoeffer. Rencontre de deux humanismes (Labor et Fides); e un pastore metodista che era in servizio a Parigi negli anni ‘50 del 900, lo ebbe come frequentatore della Chiesa americana e giunse a parlare di una possibile sua confermazione, se lo scrittore non fosse morto a 46 anni in un incidente d’auto – dobbiamo al pastore Giorgio Bouchard la recensione delle memorie del pastore H. Mumma in un numero del 2001 di Riforma. In ogni caso Camus seppe dirci che la necessità di fare il bene supera i confini ideologici e ci riconsidera, tutti e tutte, come esseri bisognosi di salvezza. Non abbiamo bisogno, invece, di proclami ed esclusione. Quanto a Happy hour il male, la malattia che spinge ai suicidi è forse proprio questa indifferenza, l’incapacità della società di essere tale. Qualunque malattia prospera, ed è più difficile curarla, dove le persone sono sole con se stesse.

 

Foto: Sentenza untori Milano, 1630